ottobre 29, 2011

George A. Romero's Survival of the Dead


Sin dai primi minuti del film temi la solita solfa: epidemia di zombie e soldati, il tutto condito con  effetti speciali tremendi, una buona ricetta per un film di merda.
Poi pensi al regista, George A. Romero, e ti vengono in mente le immagini dello storico Zombi del 1978, ricordi con piacere i non morti, il centro commerciale e la critica sociale di cui è pregno tutto il film. Un buon motivo per continuare a guardare.



La trama: quattro soldati della guardia nazionale e un ragazzino decidono di raggiungere un'isola, una terra promessa non infestata da morti che camminano. Andranno incontro ad una faida tra le due famiglie più potenti del luogo, faida nata anche dalle divergenze dei due capi clan su come affrontare il problema dell'epidemia.
Nel mezzo di tutto questo una analisi semplicistica dell'utilizzo di internet come specchietto per le allodole, un riferimento alle politiche repressive contro l'immigrazione e all'integrazione, tematiche solo accennate e rese stantie dalla ripetitività dei giudizi del regista sulla società contemporanea.
Se poi aggiungiamo una prova recitativa non proprio eccelsa e una regia anonima, il film di merda è servito.

ottobre 27, 2011

Rammstein - Herzeleid (1995)

Herzeleid è l'album di esordio dei Rammstein, un gruppo nato nella prima metà degli anni novanta che integra ai martellanti ritmi industrial le pulsazioni provenienti dalla musica dance. Il gruppo deve il proprio nome ad uno storico incidente aereo avvenuto in Germania nel 1988 e si fa notare dal vivo per i volumi assordanti di cui fa uso, le architetture luminose esagerate e i musicisti che esaltano l’atmosfera già immonda spesso anche indossando  maschere munite di lanciafiamme. Lo stile musicale, comunque, caratterizzato dalla salda matrice metal su cui si poggiano una strana propensione alla melodia e un giusto dosaggio di elettronica costituisce un interessante esempio di crossover.
Con Wollt Ihr Das Bett In Flammen (volete vedere il letto in fiamme?) ha inizio il viaggio di Herzeleid: un inno cupo e autoreferenziale che da subito scopre l’ambiguità palese del suono nel suo complesso. L’effettistica aliena che interviene a sostegno della componente ballabile convive con un riff cattivo di chitarra su cui solenne si innalza la voce del cantante Till Lindemann.
Con Der Meister la potenza delle chitarre è liberata completamente insieme a tutta l’energia fisica della danza contenuta nel brano. L’ingresso è una versione amplificata in ferocia delle ritmiche da sala da ballo di fine anni ’80. Vortici caotici deformano gli stacchi di rullante e conducono in ambienti quasi lisergici dove d’un tratto una melodia in maggiore risulta riconoscibile: è un volo strano e di pochi istanti, una sospensione fragile che termina non appena una raffica di doppio pedale arriva per strattonarci bruscamente. Il paesaggio intorno si fa più cupo fino all’impatto violento sul terreno duro, la continua evocazione del disastro aereo.
L’invincibilità del suono in  Weisses Fleich, totalmente tenuto sotto controllo, avanza come farebbe un carro armato di un esercito dominante  in un contesto bellico ad alta tensione. La sensazione di trovarsi dentro ad un incubo è inevitabile, assomiglia al sapere di essere poco lontani da un pescecane, a largo di un oceano buio.
Un concerto
Con una vena di tradizionale hard rock  Asche Du Asche comunque non manca di surreali sussurri ipnotici e un acido motivo di basso, ma i momenti di romanticismo più esplicito vengono raggiunti in Seeman dove delicato l’arpeggio di chitarra si sovrappone a un tintinnio di metalli dolci e il basso, dal suono ineditamente caldo, privato dell'abituale distorsore, armonizza un canto malinconico: è una canzone che non riesce a fare a meno della tensione metallara o del noise, rimanendo però dentro ad una sorta di rigore europeo da conservatorio. Nonostante la regolarità della struttura il brano risulta comunque ambiguo anche per la presenza della tastiera che interviene a sostegno della melodia rendendola più celeste, fino al ritorno dell'arpeggio iniziale.
In Du Reichst So Gut è uno stacco in pieno stile dance a segnare l'avvio. Così può partire una danza ossessiva e in qualche senso poco libera che trasporta in una città violenta con le strade che pullulano di automobili in corsa e con le sirene spiegate. Le svirgolate sulle note acute della chitarra risuonano in mezzo a distorti riff orchestrali sovraincisi. La voce ingorda è quella di un guru irritato, o di un re che parla ai suoi sudditi guardandoli dall'alto e  sostenuto da un organo che dona magia all'atmosfera. Il limite del brano è il ritornello che sembra richiami a certe banalità del punk rock che comunque, nel complesso, non infastidiscono più di tanto.
Completano l’album Heirate Mitch in cui oltre a sentire uno dei pochi assoli di tutto il disco la voce ricorda le iniziazioni a certi oscuri riti massonici alla Eyes Wide Shut,  Das Alte Leid dove domina l’heavy metal, Herzeleid con i suoi riff incisivi, il ritornello celebrativo e le dinamiche oscillanti,  la stupenda Laichzeit, un esempio perfetto di come i riff metallari possono fondersi alla techno e Rammstein che chiude l’album in maniera perfetta e che viene utilizzata da Lynch nel 1996 in Strade Perdute (insieme a Heirate Mitch)
Nel suo complesso il disco può forse risultare un po’ ripetitivo e non pienamente riuscito nel tentativo di rendersi originale attraverso la contaminazione di diversi generi, ma merita comunque di essere ascoltato se non altro per le sue intenzioni.

ottobre 25, 2011

Folk Bottom vol.4 : Goodbye Mr. Jansch!


Bert Jansch - The Ornament Tree 1990


Il 5 ottobre scorso ha lasciato questa Terra uno degli ultimi massimi esponenti del folk britannico.
Insieme a John Renbourn, Robin Williamson della Incredible String Band e personaggi come Roy Harper, Nick Drake e John Martyn, Bert Jansch, fu tra i principali maestri della chitarra acustica negli anni Sessanta e Settanta. Di origini scozzesi, con il suo stile ibrido di folk e blues scrisse le pagine più emozionanti ed originali dell
a nuova stagione folk-europea, ormai lontana da un approccio di semplice "revival".
Tra i suoi primi lavori vanno ricordati l'esordio omonimo Bert Jansch del 1965
e lo splendido Bert & John insieme a Renbourn, che contiene una mirabile interpretazione di Goodbye Pork Pie Hat di Charles Mingus, e Birthday Blues del 1969.
Insieme a Renbourn,Terry Cox alla batteria e al glockenspiel , Danny Thomps
on al contrabasso e alla magica voce di Jacqui Mdshee, Jansch diede vita, tra il 1968 e il 1972, alla fortunata stagione dei Pentangle, pionieri insieme ai Fairport Convention e agli Steeley Span di un folk d'autore di grande fascino, e caratterizzato dalla sua raffinata miscela di folk, blues e jazz.
Fondamentale è l'ascolto del doppio Sweet Child del 1968, con una parte live e d'una in studio, che racchiude piccoli e cristallini momenti sonori come quell di Three Dances, No Exit e Watch The Stars. Molto intenso e dai toni soffusi è anche Basket Of Light dell'anno seguente, anche se l'altro capolavoro dei Pentangle è probabilmente Cruel Sister del 1970 con le splendide versioni della title-track e della lunghissima e preziosa Jack Orion.
Quest'ultimo brano da anche il nome all' ottimo album solista del 1966 di Jansch, che nel corso dei Settanta si conferma compositore e interprete della tradizione inglese, scozzese e irlandese di
grande talento e sensibilità, con dischi come Rosemary Lane del 1971 e L.ATurnaround del 1974.
Il discorso artistico di Jansch prosegue regolare negli Ottanta e nei Novanta che si aprono col il lodevole The Ornament Tree, come del resto anche al voltar del secolo in cui non tralascia mai l'importanza delle esibizioni dal vivo. L'ultima sua fatica e' stata The Black Swan del 2006.



The Pentangle


Discografia


Bert Jansch 1965-1978


Bert Jansch 1965
It Don't Bother Me 1965
Bert & John (con John Renbourn) 1966
Jack Orion 1966
Nicola 1967
Birthday Blues 1969
Rosemary Lane 1971
Moonshine 1973
L.A. Turnaround 1974
Santa Barbara Honeymoon 1975
A Rare Conundrum 1976
Avocet 1978



Pentangle 1968-1972


Pentangle 1968

Sweet Child 1968
Basket Of Light 1969
Cruel Sister 1970
Reflection 1971
Solomon's Seal 1972


ottobre 16, 2011

The wake. here comes everybody.





Nel 1985 la Factory Records rilasciava Here comes everybody, secondo disco della band scozzese The Wake. Capolavoro intriso di post-punk degli inizi ( Harmony, 1981) e barbagli di pop romantico e sognante del futuro che li condurrà sotto l'egida della Sarah Records.










here comes everybody

o, pamela

gruesome castle

ottobre 04, 2011

Hadestown :: A Folk Opera


Hadestown, uscito nel 2010, è la folk-opera concepita dalla cantautrice del Vermont Anais Mitchell e realizzata, sulla base delle sue canzoni, con gli arrangiamenti di Michael Chorney, che ha collaborato anche alle musiche.
L'intero album è ascoltabile su Youtube e facilmente scaricabile. A questo indirizzo si possono reperire tutte le informazioni su di esso e sui precedenti lavori di Anais Mitchell nonchè apprezzare l'artwork di Peter Nevins. L'opera si può seguire qui con un vero e proprio libretto,
completo di testi e riassunto della storia.
Nonostante venga definito dalla stessa autrice una folk-opera,nel disco trovano spazio gli stili musicali più diversi, a cui Mitchell e Chorney attingono molto liberamente per rendere vivida l'impressione di ogni scena e rinnovare uno dei miti più ricorrenti della musica, Orfeo e Euridice.
Il carattere folk è invece forte sia nella scelta di un mito greco,decisamente rurale,
sia in alcuni brani e nella centralità della chitarra acustica.
Figlia di un professore di lettere nonchè romanziere, Anais Mitchell fin dalla prima infanzia ha avuto contatti con i libri, specie con quelli di mitologia greca, e quest'influenza, unita al forte contatto con la terra (è nata e cresciuta in una fattoria senza televisore) e con una collezione di dischi psichedelici ha fatto maturare in lei l'idea della folk-opera.
Per aiutarla nel suo intento si sono offerti molti amici musicisti del Vermont, come Ani di Franco (cantante e chitarrista che ha scoperto Anais Mitchell mettendola sotto contratto
per la sua RighteousBabe) nel ruolo di Persephone, Greg Brown (un cantautore a metà strada tra un Dylan più ironico e un Tom Waits con meno raucedine noto anche per aver firmato alcuni brani dei Cake) in quello di Hades, Justin Vernon ( in arte Bon Iver, delicata voce cantautoriale rivelatasi nel 2008 con For Emma Forever Ago) nella parte di Orpheus, Ben Knox Miller
(del giovane gruppo country Low Anthem) come Hermes, il trio vocele The Haden Triplets a dar voce alle Fates e lo stesso Chorney nel ruolo di arrangiatore/orchestratore.
Nonostante l'intento ambizioso, il lavoro è riuscito in maniera stupefacente.
La straordinaria umanità dell'album trova la sua strada in canali musicali diversissimi, accomunati dalla forma di canzone e con arrangiamenti vari e complessi ma sempre musicali, mai furbi e neanche cervellotici o sovrabbondanti.
Molto interessante l'uso della batteria, spesso simile a quello nella musica "classica" contemporanea (ovviamente non nell'accezione di Allevi) con accenti e figure obbligate scritte a sostituire un pedante accompagnamento ormai abusato nel "rock".
Il tutto è incredibilmente curato senza per questo essere meno emozionante.
Nei brani, ovviamente di matrice folk, confluiscono ibridi fugaci, con accordi indiani dosati come spezie potentissime, accelerate drum & bass e filtri elettronici che coesistono perfettamente senza che nulla suoni assemblato, ma sia invece parte di un'unica visione multiprospettica.
Merito degli arrangiamenti di Chorney, ma soprattutto delle splendide canzoni di Mitchell che essi decorano senza sopraffare. I grandi artisti coinvolti sono poi ben più che meri interpreti.
L'ambientazione scelta per il mito è la Grande Depressione, cioè l'America degli anni '30, straordinariamente attuale, sia nel ritorno alla crisi economica che in quello a un folk primigenio.
L'apertura fa subito respirare l'aria delle verdi colline,con chitarra, contrabbasso, batteria spazzolata, violini e tremuli accordi lontani ad introdurre su un tempo sostenuto ma allo stesso ampio il duetto tra Anais Mitchell e Bon Iver, Eurydice e Orpheus prossimi alle nozze, poveri ma fiduciosi nella generosità della natura. Sullo stesso stile campestre, ma con l'aggiunta del pianoforte e su un tempo molto più disteso, 'Epic part One' compie le sue sognanti rivoluzioni malinconiche prima di fermarsi con l'arrivo di Hermes, che, tra latrati di cani e un'armonica da strada, trascina l'ascoltatore giù verso l'inferno con un uno scalmanato ballo jazz anni '20, in cui divampano cori e una tromba con sordina. Altrettanto innovativa per il mito e evidente metafora della società è la concezione del luogo infernale. Hadestown si presenta come un posto che promette infinite ricchezze attirando a se' i vivi che soffrono la povertà. Ma si rivela ben presto un regno di miseria e privo di libertà i cui sudditi,quasi lobotomizzati, non si rendono conto di ciò che contribuiscono attivamente a far esistere. Si difende dal "nemico" esterno, altri uomini in cerca di lavoro, erigendo muri e incitando al contrasto, alla freddezza e all'avidità. Dalla spettacolare opulenza infernale resta colpita Eurydice, preoccupata della povertà, mentre resta scettico Orpheus. La seduzione di Hades in persona si insinua però a passo di pizzicato con un valzer per accordion e soprattutto uno strepitoso Greg Brown, che utilizza le sue corde più basse
per scendere nell'Ade e calarsi nel personaggio del re dei morti, e Eurydice cede ('Gone, I'm Gone', un sofferto salto nel vuoto reso in musica). Le Fates giustificano la sua scelta con When The Chips Are Down, che parte africana evolvendosi sugli impulsi del basso in una danza latineggiante, mentre Orpheus si protende verso Eurydice con Wait For me, con tapes e figure di pianoforte perfettamente incastonati. E' l'intro per 'Why do we build the wall ?' , che cresce mattone su mattone salendo in alto con un ritornello sempre più lungo fino alla coda di accordion dolorosa e poi ipnotica. Nel brano, pietra angolare dell'album e forse suo vertice compositivo, Hades istruisce i suoi seguaci chiedendo loro conto della lezione, fino a ripeterla soddisfatto con essi. Sua moglie Persephone è invece introdotta su un sinuoso blues-jazz tra incitamenti e cori,chitarre e vibrafoni perfettamente a loro agio. Sembra di entrare in un club, in cui Persephone come Hades fa le sue proposte infernali ad avventori estasiati seducendoli con la sua voce irresistibile, mentre gli archi spaziano da melodie d'epoca a più moderne e sincopate fratture jazz. 'Flowers' è una canzone successiva al suicido, Eurydice ha tutto il tempo del mondo per spiegare la sua scelta e pentirsene. Nonostante gli ammonimenti delle Fates un Orpheus totalmente fuori di se' eppure calmo come se sognasse decide di inseguire la sua sposa non avendo più nulla da perdere. Il suo canto smuove il cuore di Persephone, ma Hades non vuole provare pietà, conscio della potenza devastante della musica("the kingdom will fall for a song").
Il canto di Orpheus continua sempre più bello e Hades, colpito suo malgrado, resta solo nei suoi dubbi.Tra campane tubolari, tintinnii sotterraneie gelidi accordion matura la sua perfida concessione ai due amanti, certo che, da conoscitore di tutti gli uomini,"Doubt Comes In".
Nello psichedelico brano omonimo, con la batteria monotona a scandire i passi del lungo scuro cammino verso la luce del ritorno alla vita,sembra davvero di trovarsi in caverne gocciolanti, in cui riecheggiano cieche note di archi fino all'irreparabile errore, una luce accecante e stridente di tutti gli strumenti.
Dal silenzio la musica ricomincia solo con la chitarra e le voci di Ani di Franco e Anais Mitchell.
E' il saluto finale, "I raise my cup to him", un brindisi agrodolce intonato dall'inferno alla memoria di Orpheus, e forse anche a quella di tutti i musicisti e di coloro che "cantano" nelle situazioni più difficili. La dedica di Persephone e Eurydice si estende poi verso la sterminata umanità protagonista dell'opera con i suoi archetipi, chiudendo il disco con"goodnight,brothers,goodnight".