gennaio 31, 2011

Verdena


29-1-11 Rivolta PVC – Marghera (Venezia)


A tre anni di distanza da Requiem è uscito Wow, il nuovo mastodontico (è un doppio) album dei bergamaschi Verdena. Dopo averci abituati a sonorità grunge-stoner come non se ne sentiva da tempo in Italia (si sono mai sentite?) la band mischia non poco le carte in tavola e offre un album dalle più svariate soluzioni melodiche, con frequenti escursioni e digressioni in territori ora pop, ora prog, ora entrambe, che allontanano definitivamente il combo dalla intramontabile forma canzone. Insomma, disco non facile e soprattutto lungo, da ascoltare fino alla fine. L’occasione per seguire questo nuovo lavoro dal vivo quindi è stimolante. Facce consumate e fan dell’ultim’ora affollano il Rivolta. Pronti via e dopo l’intro musicale di Adoratorio il trio ci porta subito nel sound di Wow (Scegli me e il suo naturale contrappunto Per sbaglio). I primi tre brani scivolano via senza intoppi, poi di colpo si riemerge tra i ricordi attraverso le schitarrate di Spaceman. Ma non c’è tempo, pochi cazzi, il presente incombe: la breve e aggressiva Lui gareggia si tira dietro il riff di Mi coltivo, dal vivo di grande effetto. Da qui, ha inizio un trittico più disteso che comincia con Il caos strisciante (anche questa congeniale alla dimensione live), passa per Castelli per aria e finisce al nuovo singolo Razzi, arpia, inferno e fiamme. Un colpo di reni ed è subito Muori delay per la gioia degli astanti, quindi Miglioramento (“l’unico pezzo dei Verdena con un testo decente” Milk), le incombenti Il nulla di o e Rossella roll over, e poi ancora uno schizzo di passato col punk di Viba. La zoppicante Badea blues e Loniterp (potenziale singolo se durasse un minuto in meno) intermezzano un’ulteriore capatina nel tempo che fu con Starless. Chiudono il concerto Sorriso in spiaggia PT. 1 e una potentissima Isacco Nucleare. Ma i Verdena si fanno il culo, suonano, e concedono ben 4 bis (tra i quali una violenta Was? che sfiora l’hardcore e un’altrettanto pesa Don Callisto) per un totale di due ore abbondanti di live set. Dal vivo il trio dà il meglio di sé: Luca è un animale in gabbia che solo il drumming potente, preciso e attento può liberare, Roberta sostiene la ritmica attraverso bordate di basso quasi mascoline ma con la sensibilità che solo il gentil sesso possiede, Alberto domina la chitarra e si avvinghia sul microfono, urla, si strozza, prende fiato, urla ancora. D’altronde i Verdena sono un’eccezione (ormai di lunga data) nel povero panorama del rock nostrano; lontani dai clichè e dal mainstream, l’attitudine è quella di imbracciare gli strumenti e suonare, senza fronzoli, sottolineare il valore della propria musica (e della sola) anche a scapito di testi in pochissimi casi apprezzabili. Ce ne fosse di gente che parla meno e suonasse di più.


Brother James

gennaio 28, 2011

Godspeed You! Black Emperor

27-01-11 Live Club - Trezzo sull'Adda (Milano)

I Godspeed You! Black Emperor mancavano in Italia da ben 7 anni, e francamente l'attesa è stata spasmodica. Due sole date nella nostra penisola. Band canadese che nel pieno dello stile nazionale  si avvale di un gran numero di musicisti (al pari dei loro connazionali  Arcade Fire). E per questo nuovo tour (la band si era presa una lunga pausa di riflessione causata, a loro dire, dalla guerra in Iraq)  torna ad avvalersi dei servigi di Mike Moya per portare a 3 il numero di chitarristi, di cui uno adibito all'imbastire una trama di soli feedback. Il resto è completato da due batterie, due bassi, violoncello, violino. Ma queste vacue descrizioni non servono a molto, bisogna essere là per poterli apprezzare attraverso ognuno dei cinque sensi.
I loro brani sono delle cavalcate lunghissime, dei lungometraggi musicali in cui sono riconoscibili diversi topoi cari alla band. Uno tra tutti il "crescendo" che sfocia in un esplosione di pura estasi, molto vicina all'ontologia dell'orgasmo maschile. Questi piccoli racconti cominciano in modo armonioso, con accordi edulcorati che ti cullano come se fossi supino e accarezzato dalle onde del mare vieni portato in uno stato di semi incoscienza. Ma quasi impercettibilmente le atmosfere si fanno più tetre, e le onde che prima ti cullavano si increspano sino a rendere burrascoso il mare dei suoni che si mescolano cossicchè, adesso, vieni colto dal tumulto e ti ritrovi sbattuto sulle coste frastagliate. E dopo ogni brano (dalla durata media di 15-20 minuti) lasciano circa un minuto per riprenderti dallo shock, ogni volta nuovo ma uguale al precedente. E allora torni a sentire il suono di violino e violoncello (mutuati da massicci interventi di delay) che sembrano i lamenti di capodogli e balene dilaniati da torture estreme. Ma non è così, le melodie preparatorie sono solo i preliminari di un grande amplesso e così capisci che quei lamenti non sono dovuti al dolore, ma sono vocalizzi di piacere e il crescendo esplode in un livido coito. I pezzi vengono dapprima compressi e poi liquefatti di modo tale che il suono delle batterie te lo senti piovere addosso. Due ore di concerto per mostrare a pieno cosa possa essere il post-rock, in cui strumenti tipici del rock vengono utilizzati per fornire un nuovo approccio compositivo distante dagli stilemi tipici dell'intro-strofa-ritornello-strofa-ritornello-outro. Una performance affinata e raffinata in cui i GY!BE comunicano la loro maestria nel padroneggiare melodia, armonia ma anche riverberi, ritmo, feedback e grazie a cambi innovativi passano dal rock al progressive, dall'avanguardia, al punk, alla classica. Percuotono, pizzicano, stridono ed accarezzano il suono. E all'interno di questa caotica orgia sonora nulla è lasciato al caso, neanche le proiezioni. Per questo l'ultimo plauso va al visual che ha costruito, durante il concerto, delle proiezioni (utilizzando perlopiù pellicole) che hanno abbracciato sinuosamente le trame sonore.

http://www.myspace.com/gybeconstellation

gennaio 25, 2011

Gil Scott Heron- I'm New Here

1. On Coming From A Broken Home (Pt. 1)
2. Me And The Devil
3. I’m New Here
4. Your Soul And Mine
5. Parents (Interlude)
6. I’ll Take Care Of You
7. Being Blessed (Interlude)
8. Where Did The Night Go
9. I Was Guided (Interlude)
10. New York Is Killing Me
11. Certain Things (Interlude)
12. Running
13. The Crutch
14. I’ve Been Me (Interlude)
15. On Coming From A Broken Home (Pt. 2)


"Turn around,turn around,turn around
and you may come full circle,
and be new here again"

La voce baritonale del poeta-cantante Gil Scott Heron vaga in ogni direzione nel suo ultimo lavoro "I'm New Here", per poi tornare all'inizio, in una costruzione circolare che rende il disco un capolavoro "frattale". Circolare è infatti la struttura, nonchè il testo, del brano che dà il titolo all'album, e circolare è anche quest'ultimo, racchiuso dalle due parti in cui è divisa "On Coming From A Broken Home" , da lui definita "a special tribute to my family".
La voce,confidenziale,persuasiva, è sempre presente, mostrandosi tanto ironica quanto dolorosa,ed è sempre sinceramente coinvolta in una comunicazione d'urgenza,una riflessione sulla vita molto concreta che lascia anche spazio a interpretazioni zen.
La musica è molto varia, con brani dalle chiare radici afro-americane blues e soul, niente affatto banali in scrittura e arrangiamento, a cui succedono sperimentazioni che ricorrono spesso alle novità elettroniche e a strumenti insoliti o indefinibili.
I veri e propri "brani musicali" sono uniti dagli "Interlude", spezzoni puramente parlati, apparentemente catturati, con rumori di fondo e a volte risate, che rilassano la tensione di una musica cupa e spesso cinematografica, le cui immagini nascono dalla voce. Ma non si tratta di un disco "spoken-word": il "cantato" nel senso tradizionale del termine è protagonista in molti brani, e l'intero album è apprezzabile anche solo dal punto di vista musicale.
Al pezzo d'apertura,narrato su un accompagnamento teso e fatalista,che va e viene avvolgendo in una magia greve i ricordi dell'autore, subentra "Me And The Devil Blues", evocazione irriconoscibile del brano di Robert Johnson e del suo spirito inquieto, resa da accordi senza redenzione, progressivamente saturati dall'elettronica in un paludoso R & B. Questo arrangiamento stratificato sfocia però in modo naturale nella semplicità di "I'm New Here",solo chitarra e voce, ballata folk dall'umore bipolare in cui GSH tocca a tratti le note più basse che può emettere."Your Soul And Mine", con un'introduzione d'archi evocativa di nuvoloni neri, di una bellezza terribile, gravidi e allo stesso tempo leggeri, è uno spoken-word su ritmo electro. "I'll take care of you" cammina sul battito ancestrale del blues, rivelandosi in crescendo un soul per pianoforte,voce e archi. Un pow-wow indiano con didjeridoo è l'accompagnamento di "Where did the night go?", mentre "New York Is Killing Me" è un ballo tribale con battiti di mani,voci (filtrate e non) e tamburi, movimentato a tratti da un riff di blues rurale, e culminante in un disperato coro gospel innalzato su tastiere psichedeliche. "Running" è declamata su batteria elettronica ovattata e riverberi metallici stridenti; su un basso sincopato appena percettibile di molte ottave sotto,danza "The Crutch", che sovrappone una melodia lontana di tastiere effettate a colpi di batteria minacciosi e instabili, il tutto su un tappeto tesissimo di onde quadre. Si ripiomba infine spaesati ed effettivamente nuovi al brano iniziale, "On Coming From A Broken Home".

gennaio 23, 2011

Quadrilogia di Duca Lamberti: Scerbanenco ed il Noir italiano


E' sul finire degli anni venti che nella letteratura americana si impone con forza il Noir e l'Hard-Boiled: maestri come Hammett e Chandler (suo il memorabile Philip Marlowe) non si limitano a gettare le basi del genere, ma anche descriverne le vette più alte, creando i modelli ai quali tutti gli scrittori a venire, seppur con qualche piccola variazione personale, si sono ampiamente ispirati.
Ammiccando a questi monumenti, a metà degli anni sessanta Giorgio Scerbanenco, giornalista italiano ma di origini ucraine noto perlopiù per i suoi romanzi rosa e gialli, importa un nuovo colore nella letteratura italiana: il nero. Nasce così la figura di Duca Lamberti, personaggio non poco originale - sia in confronto agli stereotipi di genere, sia se contestualizzato al substrato culturale del Bel Paese di quell'epoca.

"Più ne schiacci e più ce ne sono. E va bene, tenerezza mia, ma forse bisogna schiacciarli lo stesso"
Siamo a Milano: Duca è un medico ed è appena stato dentro tre anni per aver praticato l'eutanasia su di una anziana donna in stato terminale. Mica cazzi, siamo ancora nel '66. Radiato dall'ordine, non può più esercitare la professione: entrano dunque in gioco gli amici di famiglia. Il padre di Duca era uno sbirro e il funzionario di polizia Luigi Carrùa gli offre un lavoro quantomeno atipico: badare ad un alcolizzato, figlio di un industriale, e portarlo alla disintossicazione. Un duplice lavoro, umano e medico.
E' l'inizio di Venere Privata (1966): da semplice tutore, il nostro si ritroverà ad investigare con gli amici poliziotti su una suicida, Alberta Radelli, causa dell'alcolismo del giovane. Che poi tanto suicida non è...
Nella Milano del Boom economico, anche il crimine inizia a farsi organizzato: lo sfruttamento della prostituzione come specchio della società dei consumi. Quanto pesa per le istituzioni la morte di una giovane donna, e quanto per l'animo umano?

"Io Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria"
Da San Francisco a Buccinasco, passando per Piazza Leonardo da Vinci a Milano; dalla seconda guerra mondiale alla contemporaneità, la storia di Traditori di Tutti (1966) viaggia nello spazio e nel tempo.Avvocati e macellai, traffici di armi e droga, annegamenti nel Naviglio, verginità perdute e chirurgicamente riconquistate. Traditori e traditi.
Un capolavoro egregiamente intrecciato (non a caso nel 1968 vince il Grand prix de littérature policière), da divorare dalla prima all'ultima pagina. Duca non è più un investigatore occasionale e abbraccia la carriera di poliziotto a tutti gli effetti; l'umanità con cui scontrarsi però è sempre la stessa: il peggio del peggio.
L'amara ironia dell'abiura galileana che il nostro manda all'Ordine dei Medici per essere riabilitato è forse il momento più lucido di questa discesa disincantata nei più oscuri meandri dell'animo umano.

"A che serve arrestare un mostro? A che serve punirlo? A che serve ucciderlo? A che serve che viva?"
Matilde Crescenzaghi, è una giovane insegnante che è stata seviziata e percossa fino alla morte dalla sua classe di ragazzi difficili: tutti colpevoli, tutti innocenti. Eppure dietro l'omertà degli alunni si intravede un orrore ancora più grande e morboso del delitto stesso. Da dove viene il marcio che ha corrotto I Ragazzi del Massacro (1968)? Duca svolge un il doppio lavoro di sbirro buono e di sbirro cattivo, perchè coi giovani bisogna saperci fare. Scerbanenco si limita a fare il suo, ma dannatamente bene. Fernando Di Leo ne trae una pellicola, ennesima conferma della maturità artistica raggiunta dallo scrittore.

"Un vecchio milanese, lavora sempre, ogni giorno, durante tutta la settimana, anche se corta. Se commette qualche cosa che non va, la commette al sabato"
E infatti, I Milanesi Ammazzano al Sabato (1969). Proteggere le cose fragili a volte non basta: la crudeltà passa sopra tutto e tutti, e dopo resta solo la disperazione. L'ultima avventura di Duca, prima della prematura scomparsa del suo creatore; forse la più sentimentale delle quattro, ma anche la più sofferta. Il giusto epilogo di una saga in quattro tempi.

La scrittura di Scerbanenco è sempre ineccepibile ed efficace: mai particolarmente sanguinolenta, ma sempre dolorosa. Non è un caso se dal 1993 la miglior opera giallistico/noir italiana viene insignita del Premio Scerbanenco (tra i suoi vincitori Pinketts, De Cataldo, Lucarelli). Nelle sue storie nessun ruolo è minore, ed i personaggi, specie quelli femminili, sono tutti splendidi. Livia Ussaro (che diverrà la compagna di Duca) e Lorenza Lamberti (sua sorella, ragazza madre) sono le roccaforti nelle quali l'umanità dell'ex-medico/investigatore si rigenera. Una umanità che è un'arma che non viene mai meno, e che supera sè stessa: non è con le rivoltelle che si combatte contro i mulini a vento, non è sparando che si doma una mala emergente, cinica e violenta, che affonda le radici nei cambiamenti economici e culturali di una nazione, ma resistendo all'orrore che avanza. E dunque in questo che lo stoico Duca Lamberti differisce dallo stereotipo dell'investigatore made in USA: più eroe che anti-eroe (ma mai consolatorio), integerrimo, in buoni rapporti con la polizia, non ostenta atteggiamenti machisti o violenti.
D'altronde, per tutto il marcio, Milano basta e avanza.

Steno Tung

gennaio 22, 2011

INSEPARABILI


Patologia: parte della medicina che studia le cause e le manifestazioni delle malattie.


L’argomento che accomuna l’intera filmografia di David Cronenberg (regista, sceneggiatore e attore) è la patologia dell’uomo, spesso riferita al disturbo mentale ma anche a quello fisico.

“Inseparabili” è una pellicola del 1988, pietra miliare della settima arte.

Jeremy Irons interpreta magistralmente i due protagonisti del film, i gemelli Beverly ed Elliot Mantle, ginecologi affermati dalla personalità ambigua, l’attore si immerge totalmente nei personaggi così diversi fra loro ma così tanto “inseparabili” da condividere morbosamente tutta la vita, comprese le esperienze sessuali. I due vivono insieme in un appartamento adiacente allo studio medico, gli ambienti sono freddi (come la regia), le musiche nella prima parte sono quasi assenti, si ha la sensazione di essere in una silenziosa sala operatoria e di sentire nele narici “tanfo di ospedale”. La presenza di Claire Niveau, nota attrice con strane fantasie sessuali e in possesso di una “cervice triforcuta”, è forte nella prima parte, ma in realtà non è un personaggio influente, chi domina la scena dall’inizio alla fine è lo sdoppiato attore protagonista. Affascinante lo scambio di identità dei gemelli che, complici, si esibiscono in un gioco perfido e sleale nei confronti della donna. Lentamente, poi, si inizia ad avvertire il delirio della storia, agghiaccianti sono gli strumenti medici per mutanti ideati da Beverly, gli interventi chirurgici appaiono come riti pagani, i camici sembrano tuniche sacerdotali, la droga è solo il mezzo di trasporto che condurrà alla pazzia.

Il finale toglie il fiato: i gemelli tentano di separarsi nel più cruento dei deliri in una clinica che ormai si potrebbe definire “degli orrori”. Chang ed Eng (i primi gemelli siamesi realmente vissuti), così si chiamano nel dolore della violenta e incoscente separazione finale.


ziggy

gennaio 21, 2011

Aurvandil - Ferd



Una perla...
La cassettina pubblicata nel Marzo dello scorso anno si ritrova tra le mani della Eisenwald, etichetta tedesca che decide di ristamparlo in formato digipack questo mese, ed eccolo...      Vi consiglio di spulciarvi il sito della Eisenwald...cassettine, demo, vinili...da avere tutti!
Eisenwald: http://www.eisenton.de/index2.htm


Aurvandil. Il nome è uno dei tanti personaggi della mitologia nordica che hanno da sempre ispirato le band devote al black metal scandinavo. Aurvandil (one man band) è francese, di quella Francia normanna tra castelli e foreste.

Le tracce sono cinque, la prima e l'ultima potrebbero anche non essere prese in considerazione poichè sono inascoltabili. Sono le due tracce più brevi. Inutili. Il bello arriva però subito nel secondo brano "Over The Seven Mountains", tra blastbeat spietati di una drum machine imbestialita e chitarre in puro stile norvegese, tra melodia e distorsione. Bellissimo. Atmosferiche e gelide anche le tastiere, pronte a rendere unici i riff che uno dopo l'altro si susseguono per circa nove minuti. Anche la terza traccia "Through Hordanes Land" è memorabile. Stesso approccio. La considero la più bella traccia dell'Ep. Ineffabile. La quarta song "Still He Walks" è un'altra bellissima passeggiata tra i rami e la neve.

Black metal a regola d'arte. Di genere. Lacrime.

Myspace: http://www.myspace.com/aurvandilmusic

gennaio 20, 2011

Una volta tanto, un prete ci apre la mente


E' ben noto come convenga stare alla larga da gentaglia come preti, vescovi e cardinali.
Tuttavia - non me ne abbiate - mi permetto di portare alla vostra attenzione una notevole eccezione: Il reverendo inglese Edwin Abbott.
Autore di numerose opere di carattere teologico, pedagogico e saggistico, questo illuminato rappresentante del clero della fine dell'ottocento (prese i voti nel 1862) era una mente aperta e dotata di un brillante ragionamento scientifico, cosa alquanto rara all'interno della casta degli amici di Gesù. Una prova abbastanza lampante è la sua teorizzazione multidimensioniale della realtà, che ha anticipato di circa trent'anni, quantomeno nelle tematiche, un certo Albert Einstein, ideatore della teoria della relatività. Questo è apprezzabile in Flatland, racconto fantastico a più dimensioni del 1884 (edito in Italia da Adelphi a partire dal 1996), che ha reso Abbot celebre ai NERD di tutto il mondo.
Il protagonista del libro è un Quadrato medio-borghese che vive in Flatlandia, una terra piatta, a due dimensioni. I Triangoli sono soldati appuntiti, le donne Rette pericolosissime e così via, in una brillante gerarchizzazione geometrica di una società dove non mancano ovviamente i capi, cioè i Circoli, approssimabili a poligoni di infiniti lati. Tra le innumerevoli spiegazioni che l'autore ci porta, c'è spazio per tutto: dalla vita di tutti i giorni (riconoscersi è davvero arduo in un mondo 2D), all'istruzione, all'arte.
Alcuni potranno trovarne noiosa la lettura: la logica e la geometria sono robe da sfigati con gli occhiali spessi, non c'è azione nè sesso nè violenza e tutte quelle cose che piacciono a noi-giovani-moderni; ma la scrittura è colta pur rimanendo accessibile, nonchè velata da una distaccata ironia. Dopo l'indispensabile introduzione descrittiva (circa metà del libro), un sogno premonitore e uno straniero alquanto insolito lasceranno spazio alla storia vera e propria, un tentativo di rivoluzione quantomeno nel mondo delle idee. L'intento del libro è infatti tanto pedagogico quanto sovversivo: ricordare di porsi sempre domande, di dubitare dello status quo, di non domare mai la propria curiosità, di cercare di continuare sempre a guardare "verso l'alto, ma non verso Nord".

gennaio 16, 2011

MRTYU! - Ornate Shroud

  1. The Night                                      
  2. Bloody Birth                                  
  3. Breathes Dust of the Night             
  4. Sacrament of Blood Distilled           
  5. The Deeps                                    
  6. BurningClera                               
  7. Dead Guru Sings                               

    Non siete sicuri dei sentimenti del vostro partner? Provate a regalare questo album, se non vi manda a fanculo, vi ama.

    Mrtyu! è il progetto solista di un neozelandese, tale Antony Milton, che definisce la sua musica "ritualistic black metal", una musica che, secondo le sue parole, dovrebbe "celebrare la Morte in tutte le sue forme" (Mrtyu è la parola che esprime il concetto di morte in lingua vedica). Tralasciando i dubbi sulla definizione di musica "ritualistica", sorgono quelli sulla classificazione sotto l'etichetta "black metal", di cui, tranne che per  l'attitudine, non c'è quasi traccia.

    Ascoltando il terzo lavoro di codesto neozelandese un orecchio poco abituato sentirebbe solo rumori. Un orecchio abituato anche, melodie di chitarra squarciate da suoni distortissimi che improvvisamente virano sul dark ambient, un cantato (raro) agonizzante e disperato come nella peggior tradizione depressive/suicidal black metal, e ancora un violino scordato pian piano sommerso da riverberi e distorsioni drone.
    Nel complesso un lavoro poco accessibile e difficilmente valutabile, ma se cercate qualcosa di disturbante è l'album che fa al caso vostro.

    http://www.myspace.com/therealmrtyu


                                                                                                  

    gennaio 14, 2011

    Love will tear us apart, Cover Joy Division di Giorgio Canali, Angela Baraldi e Steve Dal Col

    11/01/11 La Casa 139 - Milano

    La parola "tributo" è una di quelle parole di cui si diffida sempre. E quando si tratta di tributare una band di culto come i Joy Division gli interrogativi e le perplessità sono molteplici.
    Ma, pur non credendo nei tributi si può credere in Giorgio Canali (che per inciso non è "quello che accompagnava Le Luci Della Centrale Elettrica nel primo tour", semmai è quello che lo ha lanciato. Nonchè chitarra degli ultimi CCCP, uno dei fondatore dei CSI e PGR ed autore, assieme ai Rossofuoco, di autentici capolavori all'interno del panorama italiano. Scusate lo sfogo ma era doveroso).
    Canali, Steve DalCol (chitarra dei  Frigidaire Tango) e l'affascinante Angela Baraldi (la ricorderete come protagonista di "Quo Vadis Baby" ed una lunga carriera come cantante e corista) sono un trio che promette spettacolo. La prima cosa che colpisce è la scelta di privarsi di basso e batteria. Sembrerebbe un azzardo rinunciare alla fondamentale ritmica incalzante che ha reso epici diversi pezzi dei Joy Division (Atmosphere su tutti), ma alla fine sarà che la mente riempie quel vuoto, sarà che i tre si completano a vicenda, sarà per qualcosa che sfugge ma dopo pochi secondi anche gli ultimi interrogativi vengono spazzati via.
    La Baraldi prende subito in mano la scena con movenze afrodisiache e sulla tela sonora intessuta dai due chitarristi interpreta in maniera invidiabile alcuni classici della band di Manchester. Il risultato è un mood etereo, rallentato da convincere anche i nostalgici più convinti. Love will there as apart, Atmosphere, She's lost controll, Trasmission, Twenty four hours, New dawn fades (l'unico bis) sono alcune delle rivisitazioni dei Nostri durante la loro performance. La voce femminile, graffiante e calda, della Baraldi non è una sbiadita imitazione di quella di Curtis; ma un omaggio personale e sentito ad una delle band più influenti (e di cui troppo spesso ci si è indebitamente appropriati) degli ultimi 30 anni.
    Non conosco le prossime tappe, ma se vi capitano nel vostro raggio d'azione consiglio caldamente di farci un salto.

    Ps Durante il concerto Canali ha affermato che "è più facile far cover di un morto perchè non può lamentarsi". Anche se su questo ti sbagli, promossi a pieni voti.

    Milk