febbraio 27, 2011

Punk Vol. 2



Come si diceva, l’onda d’urto arrivò anche qui da noi. Milano, Pordenone, Torino, Roma, Bologna e molte altre città. Un movimento policentrico che pur essendo frastagliato portò una violenta e affamata voglia di comunicazione. Cercavano spazio, i punx. Non solo nelle case sfitte ma tra le pieghe strettissime di una società che è sempre stata seduta su sé stessa. Durò poco in effetti. Via tutti, non è il momento. Non lo sarà mai più. Ma i semi gettati attecchirono. Per fortuna. “Questo è il mio sangue: analizzatelo! Forse scoprirete quali sono i miei veri bisogni.


Quelle radici sono tutt’ora forti, rami ormai ben saldi nei ricordi. Protagonisti come Gomma, Atomo, Philopat, hanno ben presente quello che hanno vissuto. Per provare a capire un fenomeno come pochi in Italia, il Tubo ci offre due ottimi documenti: il primo è uno sguardo generale sulla situazione, il secondo invece (consigliatissimissimo) è stato girato ai tempi del primo centro punk autogestito. Buona Visione.
Virus (Terza parte)

Brother James

febbraio 23, 2011

IL DISPREZZO



Film del 1963, tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia, regia di Jean-Luc Godard. Il cast è molto interessante: Brigitte Bardot (Camille Javal), Michael Piccoli (Paul Javal), Jack Palance (Jeremy Prokosch), Giorgia Moll (Francesca Vanini) e Fritz Lang (Fritz Lang).
BB è bellissima, sia bionda che bruna, ha già fatto impazzire tutti gli uomini del pianeta col suo musetto imbronciato e il suo accento delizioso, musa ispiratrice di vari artisti (un nome su tutti Andy Warhol), è tenera e allo stesso tempo sensuale ed elegante, anche quando dice le parolacce. Siamo in Italia, Camille è una giovane dattilografa che sposa Paul, uno scrittore di romanzi gialli scritturato dal produttore Prokosch per scrivere la sceneggiatura di un film sull’Odissea, rivisitato in chiave moderna e girato dal genio Fritz Lang nel ruolo di se stesso (si gira un film nel film, particolare curioso che riprenderà Truffaut in “Effetto Notte”). I titoli di testa sono narrati da una voce esterna e accompagnati dalla musica drammatica e struggente di George Delerue che si presenterà spesso, proprio quando lo spettatore ne avvertirà il bisogno. La voce cita il critico cinematografico Andrè Bazin: “Il cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo” …continua poi: “Il Disprezzo è la storia di questo mondo”. In meno di due minuti si è già in uno stato di malinconia non indifferente. La scena si sposta in camera da letto dove Paul e Camille si scambiano dolci effusioni, lei è nuda (tra i nudi più belli della storia del cinema), morbida, qui i due si amano “completamente, totalmente, tragicamente”. La descrizione dei personaggi la si ha subito dopo, nella scena di Cinecittà: Prokosch si rivela uno scontroso e violento produttore affamato di successo, Francesca è la sua traduttrice-concubina in pieno stato di sottomissione al padrone, Lang è immenso come nella realtà, saggio e mai banale. Paul e Camille intraprendono un tragitto a senso unico pieno di dissapori, gelosie, silenzi che nella vita quotidiana sembrano macigni, scomparsa la complicità ora sanno entrambi che vanno incontro alla catastrofe e si lasciano trasportare via nella loro fragilità. La vita reale si intreccia al mito: Paul è come Ulisse, è solo, combatte una battaglia contro se stesso, è in viaggio come il personaggio omerico (non a caso il regista di tanto in tanto ci mostra le statue delle potenti divinità greche) ma il suo è un viaggio interiore. Camille vaga in uno stato di confusione che disorienta anche lo spettatore, non si capisce se mente o dice il vero, se lo ama ancora o no, è torturata dal dubbio, alla fine sarà costretta a scegliere. La parte finale del film è ambientata a Capri, in una delle ville di Prokosch dove girano le riprese del film, qui Camille per dimostrare il “disprezzo” nei confronti del marito si farà sorprendere volontariamente mentre bacia il bruto produttore innescando una serie di eventi. Nella realtà siamo a Villa Malaparte, capolavoro di arte moderna progettata da Adalberto Libera, situata su un promontorio che spunta dalle acque del Mar Tirreno, spettacolare. “Il Disprezzo” è fondamentalmente un film triste, drammatico, esalta i difetti dell’uomo e le sue debolezze, infatti la Bardot non ride quasi mai, i pochi sorrisi sono presto spezzati dall’infelicità che inesorabilmente ricade come una maledizione divina. Il film non è considerato una pietra miliare del genere, siamo al tramonto della “nouvelle vague”, i dialoghi sono sempre intelligenti, mai volgari, brillanti, grotteschi, una caratteristica del cinema godardiano, le inquadrature sono geniali. I riferimenti sono moltissimi: vengono citati Dante, Brecht, ma anche grandissimi del cinema come Griffith e Chaplin, le locandine affisse sono degli omaggi che il regista offre a Rossellini, Hawks, Hitchcock, perfino a se stesso con “Questa è la mia vita”. Ma l’omaggio più importante è sicuramente quello a Fritz Lang, lui non fa altro che essere se stesso, non fa altro che essere mitico. Nel film definisce “M” il suo lavoro migliore, davvero lo pensa, davvero è stato a colloquio con Goebbels (Ministro della Propaganda nel Terzo Reich) prima di fuggire in America, Lang confesserà poi questi aneddoti nel bellissimo documentario “Intervista a Fritz Lang” girato da un giovanissimo William Friedkin poco prima della sua morte. La collaborazione dei due mostri sacri Lang e Godard è da brivido, BB e Piccoli diventeranno dei grandi, “Le Mèpris” resta uno dei capolavori della storia del cinema. Da evitare assolutamente la versione doppiata in italiano, troppi i tagli, Godard la rinnegherà affermando che non esprime il reale significato del film, esiste una versione integrale sottotitolata in italiano.

febbraio 22, 2011

Cinque dischi dell’anno che fu, duemiladieci.



Terzo disco:
Jefre cantu-ledesma. love is a stream. Type records. drone-gaze


Jefre - Cantu Ledesma è un nome caldo dell’ underground americano. Egli è fondatore della label Root Strata, che produce la mesmerica voce di Grouper, o gli ipnotici Tarentel, band di San Francisco, che miscela noise e psichedelica, di cui egli stesso ne è membro. Suona nei Drift, band dal post-rock jazzato, e ha collaborato, in occasione di quest’ ultimo lavoro, con Xela, nell’ellepì bonus disc, Love is a Dream.


Ascoltando Love is a stream, sua ultima fatica, dalla magica copertina pastello, ho coniato un nuovo termine: droneggiare. Vi starete chiedendo il significato di tale verbo, bene, eccovi servita la spiegazione: droneggiare sta per affogare nei droni, nel drone (ronzio), flusso onirico che caratterizza l’intera opera del compositore californiano. La Type records, attenta etichetta inglese, che produce artisti del calibro di Richard Skelton, Sylvain Chauveau, Peter Broderick, Rameses III, insomma la roba più sensazionale nel solco minimalista e ambient dell’ultimo decennio, ha pubblicato questo gioiellino, introducendolo con l’epigrafe ”shoegazing ambience for noise generation”, cogliendo in pieno lo spirito del disco. Impossibile non pensare a Fennesz, a Tim Hecker, o più romanticamente, ad una versione drone-gaze dello storico Loveless dei My bloody valentine, calati in un’atmosfera ancor più rarefatta, dove vige la regola dell’implosione, del non detto. Un album da sparare a palla nelle cuffie per decodificare quell’apparente movimento rumoroso sotto il quale si dispiegano luoghi incontaminati, trame di meravigliose melodie pescate dal momento più florido dello shoegaze. Un disco da assaporare dall’inizio alla fine, senza interruzioni, fagocitarlo, e pensarlo come un’unica suite, poiché Love is a stream è proprio questo: un percorso, un ruscello che sgorga dalla lontana sorgente per scivolare, insinuandosi, come puro amore liquido, nelle vostre orecchie; resteranno ammaliate. Una chicca per eterni sognatori, per irriducibili fissascarpe.


febbraio 20, 2011

Punk Vol. 1


Poter definire cosa sia il punk è praticamente impossibile. Il punk scompare nel momento in cui tenti di costringerlo in qualcosa di definito. Il punk è un concetto, abbraccia rabbia e creatività. E' lo svestire il brano da tecnicismi, inutili e noiosi, per mostrarne l'essenza. Se la detonazione ufficiale è riconducibile al '77 (ma solo perchè in quel periodo si contano il maggior numero di "vittime") è vero anche che le scorie radioattive sono giunte fino ai nostri giorni. Al di là degli stilemi tipici del punk (ben riassunti dall'immagine di presentazione), quella detonazione ha portato diversi cambiamenti culturali all'interno del panorama musicale. Dal proliferare delle etichette indipendenti al far imbracciare uno strumento musicale a decine di migliaia di adolescenti; molti dei quali divenuti ventenni scriveranno pagine importanti del rock.

1) Sex Pistols - God Save The Queen (Never Mind the Bollocks Here's the Sex Pistols - 1977)
2) X - White Girl (Wild Gift - 1981)
3) Clash - London Calling (S/T - 1979)
4) Ramones - Pet Cemetary
5) Richard Hell & The Voidoids- Blank Generation (S/T 1977)
6) Stiff Little Fingers - Suspect Detective ( Inflammable Material - 1979)
7) Damned - New Rose (Damned Damned Damned - 1977)
8) Germs - Forming (GI - 1979)

Come ogni esplosione degna di nota, l'onda d'urto della deflagrazione raggiunse praticamente ogni angolo del globo. Nel belpaese si ricordano le esperienze dei "Great Complotto Pordenone" e di gruppi come i Gaznevada e le Kandeggina Gang, capitanate da una 17enne Jo Squillo. Libri e documentari sul periodo si sprecano. Ma un documento interessante è fornito da Philopat in Costretti a sanguinare (Milano, Shake edizioni, 1997) su quello che accadeva nella Milano di quegli anni. Per un approfondimento su quello che è stato il punk in Italia si rimanda a settimana prossima.

febbraio 19, 2011

Attenzione! Attenzione!


Segnaliamo l'intervista realizzata da Milk agli Zen Circus per Toylet magazine. L'intervista la trovate qui: Toylet Zen Circus

Buona lettura.


0t0.

febbraio 18, 2011

JUDAS PRIEST - Ram it Down (1988)






1. Ram it Down
2. Heavy Metal
3. Love Zone
4. Come and Get It
6. Blood Red Skies
7. I'm a Rocker
8. Johnny B. Goode
9. Love you to Death




Ormai sulla scena da una quindicina d'anni i Judas arrivano con questo Ram it Down all' undicesimo album. In questi anni Halford e soci godono di un periodo d'oro. Dopo aver sfornato capolavori dell' heavy metal del calibro di British Steel, Screaming for Vengeance, Defenders of the Faith, ecc...che li hanno portati a suonare dovunque in tutto il mondo, nell' 88 danno alle stampe il loro nuovo (capo)lavoro.

La prima traccia, la titletrack, non lascia dubbi: si parte in quarta con un acuto di Halford a cui segue un tagliente riff che più metal non si può, per poi continuare nel classico stile a cui ci hanno sempre abituato. Possiamo notare subito la differenza di produzione con i precedenti lavori, molto curata ed efficace, mette più in risalto i suoni della batteria che rendono il tutto molto più quadrato e roccioso del solito, caratteristica che si confermerà definitivamente nell' album seguente. Si continua sulla stessa scia con la successiva Heavy Metal, in cui troviamo effetti che rendono l' ascolto sempre più metallizzato, un aspetto che vale più o meno per tutto l' album. Con Love Zone e Come and Get It i nostri alzano un po' il piede dall' accelleratore per darci in ogni caso due pezzi sempre in pieno stile Judas Priest. Ma è con la successiva Hard as Iron che si ritorna alla carica: parte un riff spettacolare sorretto dalla doppia cassa martellante di Holland per uno dei pezzi migliori del disco e che anticipa gli stilemi di Painkiller. Segue Blood Red Skies, canzone assolutamente particolare per i canoni del gruppo che introduce elementi di ''epicità'' che caratterizzano più gli ultimi lavori del combo. Si continua con I'm a Rocker in cui si nota il primo calo di tensione dall' inizio dell' ascolto, seguito dalla cover di Chuck Berry, Johnny B. Goode, che risolleva un po' gli animi perchè ben riuscita, benchè un po' fuori contesto. Segue il secondo piccolo calo del disco, Love You to Death, canzone dall' andamento poco incisivo e che stanca un po', ma poco male, perchè la suddetta sta per lasciare spazio a quello che è uno dei pezzi più belli ed epici mai scritti dai Judas Priest, la conclusiva Monsters of Rock: una cavalcata di 5 minuti e mezzo, dall' andamento solenne e allo stesso tempo monolitico, che mette in chiaro chi sono effettivamente i veri ''mostri'' del rock. Un album, questo, che fa percepire l' eccellente stato di salute della band, tanto che a questo seguirà il lavoro considerato da molti il picco massimo della loro già nutrita discografia, Painkiller, disco che influenzerà pesantemente tutto il mondo del metal e che consacrerà i Judas Priest come veri leader della scena Heavy.


febbraio 16, 2011

Massimo Volume



12/2/2011 – Auditorium Flog, Firenze

Cominciato negli ultimi mesi del 2010, il Cattive abitudini tour (dal titolo dell’ultima fatica del gruppo) aggiunge date su date, tocca un po’ tutta Italia, Firenze compresa. Ogni volta che si assiste ad un live dei Massimo Volume l’aria è sempre gravida di promesse, incrociamo sguardi nervosi e distesi allo stesso tempo. Ci si aspetta non qualcosa ma QUELLA cosa. Tutto ciò è (in)consciamente legato alla parabola - non solo artistica - dei Nostri: quella parabola che i fan della “vecchia guardia” ben conoscono e che li ha portati a covare, desiderare e alimentare una piccola ma fervente attesa che chi scrive ha ugualmente nutrito quando li ha scoperti nel 2004, quando i giochi erano ormai fatti e arrivava solo l’eco di un gruppo capace di “creare e uccidere un genere nello stesso istante: nulla di simile prima, tutto simile dopo”. E in effetti ad oggi, il seguito dei Massimo Volume si è notevolmente allargato, non c’è più quell’effetto di diffidenza (ma sempre rispettosa) legata alla tecnica di non-canto di Emidio “Mimì” Clementi.
Nonostante la musica sia la forma d’arte più caduca che esista, non ci prende per il culo (o forse si?) e l’attesa finisce. Le distanze del tour si fanno sentire e al di là di indimenticabili performance (Bologna nov. 2008, il primo live registrato subito dopo la reùnion e la data del 2009 al “Ferrara sotto le stelle” con ospite Faust’o) la band a tratti appare comprensibilmente stanca. Alcuni brani (Coney Island, Litio, La bellezza violata, Fausto) vengono eseguiti perfettamente ma suonano freddi, compassati, quasi un compito a casa. A creare una sorta di equilibrio ci pensano Le nostre ore contate, Via Vasco de Gama, In un mondo dopo il mondo: eseguiti con decisa attitudine, potenti e con grande espressività. Finalmente ci riempiamo un po’ le orecchie oltre che l’animo. Concetti questi, ribaditi nel bis, la “vecchia guardia” appunto, forse il miglior momento in tutto il live (Il primo Dio, Il tempo scorre lungo i bordi, In nome di Dio, Stanze, Fuoco Fatuo e la coda finale di Ororo). Ma non lasciamoci ingannare, forse è l’irruenza dei brani ripresi dagli album precedenti a riscattare in qualche modo la serata non al meglio del gruppo. Ascoltarli comunque non fa mai male, il nostro immaginario ne esce rinvigorito cosi come la nostra esperienza (“Perché siamo stanchi di novità!”). La loro forza sta proprio in questo: predispongono e invogliano all’ascolto, anche perché qui non si parla di un testo su musica, no; storie di vita vissuta e non, perfettamente integrati con un tessuto musicale mai banale e che ha la forza di risultare sempre nuovo. Il carisma mai invadente di Mimì, il lavoro duro e puro di Egle Sommacal alle armonie e l’eleganza ai tamburi di Vittoria Burattini. E poi il vero valore aggiunto alla formazione, Stefano Pilia; background da sperimentatore e indagatore degli spazi sonori, non si sottrae nel supportare il già citato Sommacal con trame e giochi tematici, fino alla sovrapposizione di questi, all’armonia quindi. Insomma, live godibile. All’epoca di ‘Stanze’ pensavamo veramente di cambiare la musica italiana”. Cosi Emidio Clementi, qualche tempo fa in un’intervista. Non vi sbagliavate.

L’intervista completa ad Emidio Clementi la trovate qui: www.soluzionisemplici.net/emidio-clementi/
Inoltre, consigliamo la lettura della prima biografia del gruppo: Andrea Pomini, Tutto qui, la storia dei Massimo Volume, Arcana edizioni, 2010.

Brother James

febbraio 13, 2011

Proto - punk

"0t0 lancia la sua prima rubrica: one and wonder. Consigli per un ascolto da domenica pomeriggio. Poco da dire e molto da ascoltare. Ogni settimana una compilation per indagare un diverso genere dell'universo musicale. Questa non è una classifica delle "migliori canzoni di..."; piùttosto una compilation riassuntiva ed identificativa del  (non) genere.  Buon ascolto."



Il detonatore della bomba esplosa "ufficialmente" nel '77 era stato azionato circa 10 anni prima. La rabbia selvaggia non la si lascia più implodere, ma viene donata agli altri. Diversi personaggi, stanchi degli odori lasciati in giro dai figli dei fiori, incendiano col napalm tutto ciò che li circonda. Bruciano le promesse non mantenute dei sixties destando(si) con violenza dal bugiardo sogno hippie. Per la prima volta il "noise" (provocato oltre che con distorsioni e feedback, anche con bidoni, mazze e addirittura martelli pneumatici) entra a far parte del linguaggio musicale. Fa, timidamente, comparsa il concetto di "fastidio" musicale al quale, finora, il timpano non era abituato. I gruppi citati spesso sono distanti come sound o intenti, ma hanno avuto il merito di portare ed apportare nuovo materiale per contribuire alla costruzione di un diverso linguaggio musicale.

1) Stooges - 1970 (Fun House - 1970)
2) Mc 5 - Kick Out The Jams (S/T -1969)
3) Velvet Underground - Venus In Furs (Velvet Underground & Nico -1967)
4) New York Dolls - Human Being (Seven Day Weekend 1973)
5) Lou Reed - Walk on the wild side (Transformer -1972)
6) Iggy Pop - Lust for life (S/T -1977)
7) Dead Boys - Ain't it fun (We Have Come for Your Children -1978)
8) Captain Beefheart - Abba Zaba (Safe As Milk -1967)
9) Electric Eels - You're Full Of Shit (The Eyeball Of Hell -1975)

Ps: Una lettura consigliata per capire il delicato periodo storico è "Please Kill Me, il punk nelle parole dei suoi protagonisti" di Gillian McCain e Legs McNeil (Dalai Editore).

febbraio 11, 2011

Cinque dischi dell’anno che fu, duemiladieci.



Secondo disco: chelsea wolfe. Ἀποκάλυψις. baby birch records. experimental rock folk goth industrial spiritual realm funeral songs California.

La grande sorpresa del duemiladieci viene dall’altra sponda americana, West Coast, California per l’esattezza. Il nome da tenere a mente è Chelsea wolfe, da Los Angeles, già terra fosca e visionaria di Zola Jesus, altra chanteuse dark che spopola da un paio d’anni nell’underground witch-house americano. Il primo lavoro della black lady californiana, The grime and the glow, album più introverso e sporco rispetto al successivo Ἀποκάλυψις, viene distribuito in sole 500 copie dalla sconosciuta Pendu sound, mentre Ἀποκάλυψις, per il momento, resta scaricabile in digitale e circola illegalmente nei vicoli reconditi del web. I hope, someday, Aποκάλυψις will be out on vinyl .. i think in 2011.. for now "The Grime and the Glow" is out on pendu sound on vinyl 28 dec .. keep well .. è stata la sua testuale risposta ad una mia mail, in cui chiedevo la possibilità di avere il suo disco. Ma ci sono buone notizie perché l’australiana Baby birch records sembra essersi fatta avanti per stampare questo disco oscuro, tenebroso che si presenta con un’ouverture estrema, che spaventa e disorienta: Primal/carnal, ovvero ventiquattro secondi di feroci urla brutali. Frastornati, ci si ritrova avvolti da Mer, il secondo brano, dove Chelsea danza con la sua voce penetrante sulle note della chitarra spartana e tagliente, che affonda lentamente la lama in Tracks (tall bodies), terzo brano del disco. Il binomio iniziale sembra voler riscaldare l’orecchio dell’ascoltatore, prepararlo a discese abissali come quella di The wasteland: un vertiginoso incrocio tra gli ultimi Portished, quelli ossessivi - visionari di Third, e i Radiohead di inizio millennio; ecco, senza dubbio, il primo capolavoro dell’album. Presto incalza Moses, un riff tetro e martellante alla Black Sabbath ( ancor più distorto e amorfo nella primitiva versione contenuta in The grime and the glow ) su cui s’insinua la voce rantolante della donna dagli occhi spiritati, scesa sulla terra per cantare l’apocalisse; “ burning like the sun” ripete disperata e strisciante come una vipera immortale. A metà disco spunta la frenetica Demons, una vecchia Polly Jane Harvey in preda a crisi epilettiche, mentre con la successiva Friedrich Shain è tempo di rifiatare: rapida risalita dal profondo scantinato per rincorrere un piccolo spiraglio di luce, dopo tanto buio; il brano ricorda ancora i Radiohead, tra There There e sprazzi amnesiaci e sonda il terreno per i sette minuti di Pale on Pale, la funerea ballata che incanta, la macabra visione di pratiche cannibali (riecheggiano le urla dell’intro), il momento più alto dell’intera opera. La strumentale To the forest, towards the sea ci deporta con sferraglianti treni in territori lontani, troppo lontani, campi di concentramento siberiani ?, dove ci attende una silente doccia gelata, “ What’s happening to me? ”. In chiusura si viene cullati dalla pregevole Movie Screen : cori soffusi in apertura che via via si fanno sempre più struggenti, scavati dalla graffiante chitarra e dalla voce dilaniante che, lontana e solitaria, canta “ don’t you ever cross that bridge in your mind again ( it’s like a movie screen)”, ed è un finale di sublime schitarrare ululante e un lacrimare, lacrimare, lacrimare ! Colonna sonora di un film dell’orrore proiettato nella nostra mente, oramai, ammorbata, distorta. Disco dell’anno, duemiladieci naturalmente.
P. S. sottolineo la cover di You are my sunshine di Jimmie davis o Oliver hood ?, canzone popolare della Louisiana datata 1939, solare melodia del sogno americano, qui, spezzato, frantumato, deriso in una triste litania che non lascia speranze. Chelsea Wolfe ha le palle e le mostra nel coverizzare Black spell of destruction di Burzum; niente male come biglietto da visita, vero?

http://chelseawolfe.bandcamp.com/album/- qui è possibile ascoltare l'album

febbraio 09, 2011

Californication: un romantico Sex and the City per maschietti


Attenzione! La lettura di quanto segue è sconsigliata alle persone più sensibili, prive di senso dell'umorismo e che non sopportano parole come sesso anale e anacoluto.
Facendo una speculazione prospettica, siamo diretti verso un futuro matriarcale: ci aspetta una società pullulante di api regine in cui il povero maschio asservito alla gleba fatica a farsi valere. Infatti, non grazie al femminismo, ma grazie a prodotti culturali di massa come Sex and the City, la donna ha fatto dei grandi passi avanti nell'autoaffermazione, prendendo consapevolezza del potere del proprio sistema ludico-riproduttivo e di conseguenza, nutrendosi delle orgasmiche rendite ottenute svendendoLa al miglior offerente, è riuscita finalmente a diventare il sesso forte, capace di far barcollare addirittura Capi di Stato di grande -ehm- rispetto. Per contro, l'uomo continua a farsi infinocchiare da disneyane favole d'amore ed a farsi sottomettere dallo strapotere del di lei pertugio, snaturando il fondamentale ruolo di bilancia sociale che ha il pene, in un processo di zerbinizzazione dilagante ed ormai probabilmente irreversibile.

Per provare a salvare l'agonizzante maschilismo - che quando è in salute tanto bene fa alle donne - Tom Kapinos e quelli della Showtime mettono su uno spettacolino niente male che è la perfetta sintesi di tutti i clichè esistenti: Hank Moody (David Duchovny) è lo scrittore niùiorchese bello e dannato in crisi creativa, Karen è la sua compagna e musa, la figlia Becca (concepita il giorno della morte di Kurt Cobain) l'ancora di salvezza di un uomo alla deriva in un mare di figa senza senso. Dopo essersi trasferita a Los Angeles, infatti, la coppia è andata in crisi ed il nostro eroe, mollato per l'insulso Bill, salta da un letto all'altro non tanto per vendetta quanto per disperazione, spupazzandosi con ridicola facilità le meglio fighe di L.A. ed avendo come unico riferimento morale la felicità della propria rock-figliuola. La faccenda però si complica quando scopriamo che una delle fighe suddette è minorenne e più vicina ad Hank di quanto lui possa immaginare.

Non è dunque l'originalità il pezzo forte di Californication: Bukowski più Lolita fratto vero amore è una equazione prevedibile, così come il finale del primo blocco di puntate. Eppure la serie è stata rinnovata fino alla quarta stagione - in uscita negli States da inizio 2011 - per il grande successo ottenuto. A cosa è dovuto?
Su tutto, i dialoghi: esilaranti non solo per i contenuti VM16 ma per il magistrale uso dello slang - da gustarsi rigorosamente in lingua originale visto il pessimo doppiaggio in italiano. Il cast è azzeccatissimo, le situazioni bizzarre compensano la stereotipia/antipatia di alcuni personaggi, la colonna sonora apprezzabilmente rock è godibilissima e spazia dai grandi classici a certo indie più attuale; e, come già detto, non mancano tette e culi, ingredienti fondamentali per la commedia perfetta.
Qua e là qualche citazione alta o rimandi culturali ammirevoli - ad esempio, i libri di Hank si intitolano come album degli Slayer - ma niente di troppo pretenzioso: cazzeggio puro e semplice, fottutamente ben fatto.

Brillante, volgare, fallocentrica: la serie ideale per insegnare ai maschietti il vero romanticismo.

Steno Tung

febbraio 07, 2011

UFOMAMMUT - Eve

Gli Ufomammut sono il più importante gruppo psychedelic sludge metal italiano, provenienti da Tortona e attivi dal 1999, sono in 3 ma fanno casino come se fossero in 30.
Il loro sound è pieno, massiccio ma al tempo stesso dotato di varie "sfumature psichedeliche" che richiamano fortemente la scena heavy psych di fine anni '60 e realtà più vicine a noi come Sleep ed Electric Wizard, ma questi richiami non implicano una imitazione passiva, bensì una rielaborazione con stile e un linguaggio propri. Sarebbero la colonna sonora perfetta se volessimo rappresentare Vulcano nella sua fucina intento ad addolcire i metalli nella forgia.
Il riferimento all'essere divino non è casuale, il "Malleus", lo strumento del dio romano, è il nome del laboratorio di poster art creato da Poia e Urlo, il primo chitarrista e il secondo bassista/cantante del power trio. I loro richiestissimi lavori grafici si rifanno alla poster art statunitense degli anni a cavallo tra i '60 e i '70, all'opera di Victor Moscoso e Rick Griffin e, soprattutto, proseguono la strada già percorsa dal canadese Bob Masse che in quegli anni reinterpretò l'Art Nouveau di Alfons Mucha.
L'esperienza maturata nel Malleus Rock Art Lab ha portato i due a cimentarsi in un'altra sfida, l'etichetta Supernatural Cat, che oltre a valide band come Lento, Morkobot e Incoming Cerebral Overdrive, ha prodotto anche il quinto e ultimo lavoro della band, Eve.


Eve appunto, concept album dedicato alla figura di Eva e alla ribellione al suo Creatore.
"È l'idea della ribellione al precostituito,la ricerca della conoscenza. È abbastanza attuale, soprattutto se si pensa alla situazione della nostra Nazione oggi" secondo le parole di Urlo.
Recentemente premiato come album dell'anno dai lettori di Roadburn.com, il disco è un'unica traccia divisa in cinque movimenti, registrata e mixata nei Locomotore Studio di Roma.
La prima parte, durante i minuti iniziali, riporta alla mente sonorità Kosmiche Musik, in seguito, grazie all'inserimento di riff granitici e distorti si trasforma in una cavalcata astrale degna di The Piper At The Gates Of Dawn. Il brano cresce di intensità a dismisura per poi implodere e lasciar spazio ai primi, inquietanti minuti del secondo movimento, che sarebbero la soundtrack perfetta di un film horror di infima qualità. Un ulteriore crescendo apre la strada alla terza parte,la più breve e aggressiva del lotto, in cui un theremin impazzito fa da sottofondo ad una sfuriata pesante come un treno e alle urla filtrate del cantante.
Il gioco calma apparente/esplosione parossistica continua anche nel quarto movimento, in cui un cantato molto "acid" accompagna il brano fino al momento in cui la chitarra esplode in un lamento metallico, una straziante agonia che ci lascia al pezzo conclusivo. Ritornano gli incubi sonori già familiari, il theremin alieno, i riff doom ultradistorti e la inquietante melodia che ci aveva tormentato nel secondo movimento; il tutto a concludere un monolite di 44 minuti che va ascoltato nella sua interezza per poter essere apprezzato appieno, come se fosse un unico flusso sonoro.

P.S. Consigliatissimi anche dal vivo, i nostri creano uno spettacolo molto intenso, accompagnato egregiamente dalle bellissime proiezioni ad opera del Malleus Rock Art Lab, di cui è anche possibile ammirare e acquistare gli splendidi poster.

http://www.ufomammut.com/
http://www.myspace.com/ufomammut
Eve I video

febbraio 04, 2011

INCUBUS - Beyond the Unknown (1990)








1. Certain Accuracy
2. The Deceived Ones
3. Curse of the Damned Cities
4. Beyond the Unknown
6. Massacre of the Unborn
7. On the Burial Ground
8. Mortify



Incubus, americani. Da non confondere con altre omonime band dell'underground, anche perchè qui non siamo di fronte a un gruppo underground. Questi ragazzacci esordiscono più che degnamente con Serpent Temptation nell'88, un album fortemente influenzato dal thrash più sporco e aggressivo di matrice Kreator, unito alla violenza del primo Death/Grindcore; ma è con questo Beyond the Unknown che la questione si fa più seria.

1990. Il Death Metal è in piena esplosione. Solo in quest'anno escono dischi del calibro di Human dei Death, Cause of Death degli Obituary, l'omonimo dei Deicide... solo per citarne alcuni. Non per niente ma... la scena era ''florida''. Battute a parte, come i loro illustri colleghi gli Incubus registrano il loro secondo lavoro proprio nei Morrisound Studios di Tampa. Ne esce un album assai più maturo del precedente. Se prima si notava ancora un certo distacco tra le parti più tipicamente thrash e le sfuriate in blast-beat adesso il tutto è amalgamato alla perfezione. Un netto miglioramento lo troviamo nelle parti vocali, uno degli aspetti più riusciti degli Incubus in cui il growl è sempre più che comprensibile, ma soprattutto molto personale.
Ma è nella parte strumentale che si sente l' effettivo talento di questa band: i riff, sempre derivanti dal classico thrash sono pesanti e velocissimi, ricordano certe cose di Pestilence e Sepultura, ovviamente pre anni '90, ma il bello è che non sono mai scontati, idem per gli assoli di cui ne troviamo grande quantità. La sezione ritmica è abbastanza devastante. Il batterista riesce sempre a sorreggere la mole dei riff con una certa disinvoltura, nonostante qualche piccola imprecisione, in verità, perdonatissima visto il contesto. In generale notiamo come il livello tecnico di tutti i componenti sia molto sopra la media. Alla fine ne esce un album sì pienamente Death Metal, ma con forti tinte thrash che rendono l'ascolto molto fruibile e divertente. Sarebbe superfluo citare qualche traccia in particolare visto che quest'album viaggia sempre su livelli abbastanza alti per impatto e freschezza compositiva. Compatto come un macigno, suonato e prodotto alla grande, ma con un tipo di attitudine diversa rispetto ai canoni del periodo, e forse è proprio lì il segreto di tutta questa personalità che trasuda da ogni nota. In definitiva un album sconosciuto ai più ma che meriterebbe ben altri riconoscimenti. L'ascolto è obbligatorio per ogni fan del Death old school, ascoltare per credere.

A differenza del suo predecessore Beyond the Unknown viene registrato completamente dai fratelli Howard, Francis e Moyses, rispettivamente chitarre-basso-voce e batteria. Il duo è ancora attivo sotto il nome di Opprobrium.

febbraio 02, 2011

Cinque dischi dell’anno che fu, duemiladieci.


Primo disco: beach house. teen dream. sub pop. dream-pop.

I beach house, già in mostra nel 2008 con quel gran disco di Devotion, tra i migliori dieci del decennio scorso, il quale gode della mia totale devozione, ritornano in gioco abbandonando le atmosfere rarefatte dei primi due lavori e svoltando nel limbo del pop, un pop zuccheroso e brioso che, fortunatamente, non dimentica la scia languida e spettrale del passato.
L’uno - due iniziale è da togliere il fiato: Zebra e Silver soul sono due gemme ereditate dall’introverso Devotion; l’arpeggio di Zebra, overture del disco, viene elegantemente sfumato nello slide nebbioso della chitarra di Scally che tira fuori la celata anima d’argento, Silver Soul, forse l’apice del disco targato Legrand - Scally. Norway, primo singolo estratto, viene scandita da organo e batteria e introdotta da un arpeggio ubriaco al quale segue un ritornello micidiale e radiofonico difficile da levare dalla testa. Walk in the park , altro momento alto del disco, ci traghetta, con il solito organetto spiritato - stereolabiano e la chitarra vibrante, nel mezzo del disco dove c’è la deboluccia Used to be, un fiocco di neve mal digerito, e l’estiva Lover of mine, che ricorda i Talk Talk della svolta slowcore, in cui Victoria sembra immedesimarsi in Nico, quella più solare, si fa per dire, di Chelsea girl. Better times è il chiaro manifesto della futura canzone beachousiana, canzonetta pop dolce e orecchiabilissima, come si è visto nell’episodio di White moon, singolo uscito nel corso del duemiladieci, dopo Teen Dream, dove i beach house sprofondano, deludenti, in un infantile pop-filastrocca che ribattezzerei housewife-pop, visto che piace anche a mia madre. Il finale del disco è strappalacrime con 10 mile stereo, tra Stereolab e Blonde Redhead, e Take Care, in cui la melodia tracciata dall’organetto vintage è tra le più commoventi mai scritte dai bh. Per molti, Teen Dream è il disco della maturazione, consacrazione, per me il disco della svolta pop, del salto nel mainstream, pompati da pitchfork e non solo. Inferiore a Devotion.
P.S. a dicembre è uscito un singolo I do not care for the winter sun, una cantilena natalizia, un abbozzo, un frammento svogliato e senza meta, smarrito. Allora la domanda che sorge è più che lecita: quale sarà la prossima strada che intraprenderà il promettente duo di Baltimora?

http://www.myspace.com/beachhousemusic