giugno 26, 2011

Folk Bottom vol.2 - Femmes Fatales























Nel caleidoscopico mondo musicale a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, caratterizzato da novità sonore sempre più affascinanti e sorte sullo sfondo di un clima di contro-cultura giovanile pieno di freschezza creativa tanto nel continente europeo che quello americano, non poteva certo mancare il sorgere libero, autonomo e puro delle voci femminili. Sempre più frequentemente nascevano infatti formazioni d'ambito rock che delegavano alla donna e non all'uomo il difficile compito d'incantare gli spettatori con il potere lirico della voce...racchiuso in un accurato rapporto tra testo e musica...o volante verso possibilità espressive e timbriche svincolate da più consuete e canoniche forme cantate. Basti pensare all'intesità performativa della coppia Slick-Joplin nella baia di S.Francisco, o di voci potenti ed incisive come quelle di Renate Knaup(Amon Duul II) e Dagmar Krause (Slapp Happy e Henry Cow) nell'underground europeo. Ma di certo di "femmes fatales" ve ne furono tante, che, più affermate o misconosiute, riuscirono comunque a incidere in maniera decisiva sul sound particolare delle loro band d'appartenenza. Tra i sentieri del folk-psichedelico, o vuoi più evasivo e sognante, volendo tralasciare le voci che ricamavano con dolcezza o maggiore pathos composizioni mirabili, nate però dal frutto maturo di una più ampia collaborazione all'interno del gruppo, si distinsero progetti solistici fantastici, che ascoltati ancora dopo quasi quaranta anni, non vedono perduti per nulla non solo la loro unicità, ma anche la loro attualità, dovuta ad una perenne influenza esercitata sulle nuove generazioni. Nel clima del "folk revival" inglese degli anni Sessanta, Shirley Collins prima, Anne Brigs e Maddy Prior poi, furono le interpreti principali del recupero di un repertorio musicale legato alla "terra madre" delle culture contadine; recupero tanto più importante in un paese come la Gran Bretagna che vide nella sua storia un' industralizzazione precoce. Fu però la magica voce di Sandy Denny a scaturire una compiuta rinascenza del folk britannico. Tuttavia, nonostante il suo talento divino, la voce storica dei Fairport Convention non visse mai una esistenza felice e la sua arte fu incompresa da critica e pubblico al pari di altri "geni" del tempo (Nick Drake e Tim Buckley su tutti). La sua musica alterna momenti elegiaci e spenseriati, sullo sfondo però di una maledetta "nostalgia", base fatale del suo continuo abuso di alcool e di droghe che la porteranno inevitabilemente ad una morte giovane, avvolta però nel mistero e nella leggenda. I suoi lavori sono tutti godibilissimi; su tutti l'omonimo Sandy del 1972 che contiene la celestiale versione della tradizionale The Quiet Joys Of Brotherhood, ma da non trascurare neanche le collaborazioni con gli Strawbs e il progetto Fotheringway. D'origini inglesi è anche Vashty Bunyan che plasmò lo spirito luminoso insito in Just Another Diamond Day del 1970. Con precoci doti pittoriche e musicali Vashty, come tanti cantanti dell'epoca, scoprì la musica di Dylan in un viaggio a New York e al suo ritorno entrò nell'orbita della comune fondata da Donovan dove scrisse il materiale del disco e conobbe il celebre produttore Joe Boyd (Incredible String Band, Fairport Convention, Nick Drake, Dr.Strangely Strange etc). Delusa dalla debole accoglienza ricevuta dal disco, la Bunyan si ritirerà subito dalle scene per tornarc
i soltanto nel 2005 con un ennesima buona prova solista (Lookaftering) e con una collaborazione con i "folk-tronici" Animal Collective (Prospect Hummer). L'altra grande protagonista del folk-visionario britannico sarà la poco conosciuta Bridget St.John, apprezzata per i toni intimistici e introspettivi di Ask Me No Question del 1969 e Songs For The Gentle
Man del 1971. Anche la Francia d'altronde, al pari della Gran Bretagna, visse un'intensa stagione di revival-folk, soprattutto rispolverando le sue radici più celtiche e medievali, come testimoniarono formazioni quali Malicorne e Lyonesse. Mentre Alan Stivell riportava in auge l'arpa celtica e Veronique Chalot rivisitava efficacemente temi popolari dell'intero folklore francese, vi erano tuttavia due vere "outsiders", due donne davvero fuori dal comune che ben rappresentarono i vertici di un originale e suggestivo folk-d'avanguardia. Catherine Ribeiro e Brigitte Fontaine veicolarono al meglio l'immagine ideale di cantautrice-poetessa-attrice "fatale" con una musica dai toni cupi e onirici e aperta a differenze influenze. La produzione discografica della Fontaine fu tuttavia legata piuttosto a quella della musica leggera francese che allora celebrava le gesta del "bohemienne" ribelle Gainsbourg.













Tuttavia Brigitte fu
responsabile del capolavoro Comme à la radio del 1970, con l'incredibile supporto dell' Art Ensemble Of Chicago; un disco denso, complesso, dove gli elementi folk si fondono con jazz, sapori esotici e lirico-onirici, secondo una poetica più vicina allo spiritualismo etnico di Don Cherry che alla facile amorevolezza della "chanson" francese. Un medesimo coefficiente di oniricità-ancestrale lo troviamo nelle salmodianti doti recitative della Ribeiro, supportate dalla bravura strumentale del gruppo degli Alpes, per un risultato di drammatico folk-rock-progressivo. Dopotutto gli orizzonti sonori della Ribeiro erano gli stessi che Nico, dall'altra parte dell'oceano, e reduce dall'esperienza Velvet Underground, stava sondando con il costante aiuto agli arrangiamenti di John Cale; sodalizio che vide forse, con Desertshore del 1970, la massima felicità visionaria. Caso isolato quello di Nico negli Stati Uniti, se si pensa che le grandi voci femminili, per quanto incantevoli, rispondevano ai nomi di Mimi Farina, Joan Baez, Judi Collins, Carole King o Laura Nyro, volte su un versante più convenzionale o comunque lontani da presupposti più esplorativi. Diversa però fu la natura sognatrice di Joni Mitchell, emergente soprattutto nel magnifico Blue del 1971, come anche quella di Linda Perhacs nell'unico, ma notevole e allucinato album Parallelograms del 1970. Joni, canadese di nascita ma californiana d'adozione, rimane comunque tra le interpreti più raffinate del suo tempo con la sua indimenticabile performance al Festival dell'isola di Wight del 1970 dove coinvolse il pubblico con la celebre Woostock e Big Yellow Taxi, entrambe incluse nell'album Ladies Of The Canyon del 1970.La Mitchell continuerà il suo discorso emozionale per tutti i Settanta fino ad orientarsi, a partire da Mingus del 1979, anche verso un jazz morbido di grande qualità. Ed anche in Brasile non mancarono "femme fatales"... una di queste fu Joice che nel 1972 realizzò un omonimo album con Nelson Angelo, (reduce dai Clube Da Esquina di Lo Borges e Milton Nascimento), che dimostrò come il "tropicalismo" nient'altro fu che sogno, inconscio, amore e mistica fantasia di una nuova stagione culturale la cui importanza non tramonterà mai.



























Discografia



Shirley Collins & Albion Country Band / No Rose 1971


Sandy Denny


The North Star Grassman And The Ravens 1971
Sandy 1972
Like An Old-Fashioned Waltz 1973
Rendezvous 1977


Vashti Bunyan


Jus
t Another Diamond Day 1970


Bridget St. John


Ask Me No Question 1969
Songs For The Gentle Man 1971


Brigitte Fontaine


Comme à la radio 1970



Catherine Ribeiro & Alpes

Catherine Ribeiro+2bis 1969
N°2 1970
Ame Debout 1971
Paix 1972


Nico

Chelsea Girl 1967
Marble Index 1968
Desertshore 1970


Joni Mitchell

Clouds 1969
Ladies Of The Canyon 1970
Blue 1971
For The Roses 1972
Hejira 1976


Linda Perhacs

Parellelograms 1970



Nelson Angelo & Joice


Nelson Angelo & Joice 1972

giugno 25, 2011

Forever Alone

Cazzeggiare è un' arte che richiede dedizione

Haunt the House
Gameplay: circa 20 minuti
Pro: Divertente, ricercato, per tutta la famiglia
Contro: Breve (ma intenso)
Controlli: Freccette e barra spaziatrice.
Usa il fantasmino del cazzo per possedere gli oggetti della casa e liberati di tutti i visitatori!

Cazzeggia!


giugno 23, 2011

BLACK SABBATH - Paranoid (1970)














Paranoid, un titolo che non può lasciare indifferente qualunque ascoltatore di musica hard rock & heavy, un titolo che pesa come un macigno, un titolo dato a un disco uscito più di 40 anni fa. Può non sembrare, ma non è facile parlare di un album così, anche per chi con esso ci è praticamente cresciuto. Ma ci provo.

Era il 1970, da pochissimo uscito il primo omonimo album di questa band, in cui è ancora molto marcata l' influenza blues, ma già ci son tutti i segni distintivi di un sound che ha scalato generazioni e generazioni, e che ha dato la prima vera visibilità a questa giovane band di Birmingham. Un sound cupo e pesante, vera novità dell' epoca, che insieme a certe tematiche dava al gruppo un aura un po' "blasfema" che non faceva altro che amplificare questa immagine "satanista" o "anticristiana" che ha sempre caratterizzato i Black Sabbath.
Ma è con questo secondo album che il loro nome esplode letteralmente. I riff blueseggianti si amalgamano meglio con gli arrangiamenti più tipicamente heavy/hard rock, creando un sound ancora più personale di prima e quindi già inconfondibile. In più anche le tematiche cominciano a farsi più varie, come in War Pigs o Iron Man. Ogni singola canzone di questo album è un classico del gruppo e del genere stesso. Il disco è compatto dall' inizio alla fine, mai un calo di tensione o espressività. Ovviamente a farla da padrone sono sempre i riff di Iommi, assolutamente particolari e sempre ispiratissimi, ma abbinati al basso pulsante di Butler e al cantato psico-ipnotico di Ozzy. Si passa dall' opener War Pigs, un pezzo che non sente minimamente il peso degli anni e ultra-coverizzato, a Paranoid, quasi la hit del disco e forse la canzone più conosciuta dell' intera discografia del gruppo. Dalle atmosfere plumbee della stupenda Planet Caravan, dalla elettrica Iron Man e la morbosa Electric Funeral ci troviamo davanti Hand of Doom, che scivola via come se niente fosse nei suoi 7 min. C'è addirittura spazio per la strumentale Rat Salad, quasi un introduzione a quella che è, per chi scrive, la canzone più bella mai scritta dal gruppo, Fairies Wear Boots, una traccia di 6 min che racchiude in sè tutti gli elementi che hanno contraddistinto il sound dei nostri fino ad allora e che lo caratterizzeranno in futuro, qui troviamo forse la serie di assoli di Iommi migliore di tutto l'album. Che altro dire, se dovessi mettere un voto avrebbe sicuramente il massimo, ma preferisco di no, sarebbe come dare un valore a qualcosa di inestimabile.

5 pezzi Boris






giugno 19, 2011

House of Usher - On The Very Verge

Ah, il buon vecchio death metal.
Un basso, una batteria, due chitarre e qualcuno che grida al microfono, niente stronzate. Niente suoni artificiali e produzioni superpompate che sembrano come le tette al silicone, tutte uguali e finte.

Nel 1990 a Eskiltuna (Svezia) il bassista, il batterista, i due chitarristi e colui che grida al microfono si riuniscono sotto il nome di House of Usher, che deriva dal magnifico racconto The Fall of the House of Usher di Edgar Allan Poe.
Ne vien fuori un Ep di sole due tracce, On the Very Verge, pubblicato nel 1992 dalla misconosciuta etichetta italiana Obscure Plasma, che può vantare tra le sue uscite Live in Leipzig dei Mayhem e che nel 1994 si trasformò nella ben più nota Avantgarde Music (che annovera nel suo roster nomi di culto come Behemoth, Carpathian Forest, Katatonia, Kvist, This Empty Flow e Solefald).

Tracklist:
1 - Revengeance  6:35
2 - Rather Black    4:58

Revengeance e Rather Black sono due brani molto dinamici e ritmicamente vari, che nella loro struttura presentano mid-tempos e accelerazioni, il loro stile si avvicina più alla tradizione d'oltreoceano che alla scena death scandinava, eccezion fatta per la seconda parte di Revengeance. I riff sono dissonanti e di chiara impronta thrash/death (Rather Black in apertura richiama i Sepultura), il cantato è un classico growl alla Death prima maniera. Nessun sperimentalismo o esibizione virtuosistica, un lavoro di qualità con pochi fronzoli, death metal alla vecchia maniera. E basta.
I quattro svedesi purtroppo non avranno la stessa fortuna della loro casa discografica, dopo due demo autoprodotti il gruppo si scioglierà, ma non a tutti andrà male, il chitarrista Martin Larsson entrerà negli At The Gates, nome di spicco della scena death mondiale.

giugno 17, 2011

Sans toit ni loi, un film di Agnes Varda



Alla voce Agnes Varda potrebbero seguire le seguenti definizioni: regista belga, regista minore formatasi all’ombra della nuova onda francese, regista sottovalutata. Il suo film più noto è il quinto lungometraggio, Sans toit ni loi (senza tetto né legge), che racconta la storia di Mona Bergeron, ragazza emarginata che rifiuta la società con tutte le sue convenzioni preferendo una vita amorale, una vita on the road.

Una ragazza vagabonda muore di freddo: è un fatto da inverno. È stata una morte naturale? È una domanda da gendarmi. Cosa si poteva afferrare di lei e come hanno reagito quelli che hanno incrociato il suo cammino? È il soggetto del mio film.
Avventure e solitudine di una giovane vagabonda (né freddolosa, né loquace) raccontate da chi ha incrociato la sua strada, quell’inverno, nel Meridione. Ma è possibile raccontare il silenzio o afferrare la libertà? -–
sostiene Varda.

Una carrellata di personaggi ordinari e strambi ricostruiscono le ultime settimane di vita della girovaga: il rozzo e invertito meccanico “sporco nella testa”, la badante desiderosa d’affetto da parte del suo ragazzotto ladruncolo, l’amante squinternato rockettaro, l’avido nipote della ricca e pignola vecchia, il pastore filosofo e profeta, la disponibile e materna docente di agraria, il contadino tunisino generoso e la banda di drogati vagabondi della stazione. Tra indifferenza, paura, ma anche simpatia, compassione e amore - memorabile l’inquadratura del contadino tunisino che annusa la sciarpa indossata da Mona inspirando un effluvio di passione - la scapestrata ragazza, stremata, inciamperà in un fossato e incontrerà la sua spregevole fine in una gelida notte invernale.

Varda ci invita, senza patetismi e con distacco, alla riflessione: riflettere sulla società chiusa sotto un tetto, convenzionale, borghese, perbenista, razzista che non accetta gli emarginati e si costituisce escludendoli; ma d’altro canto vi è una dura riflessione che si protrae anche sulla disperata ricerca di libertà che può rivelarsi rischiosa e illusoria, condannando alla solitudine, alla perdizione e anche alla morte.

Film crudo, dallo stile minimale e asciutto che ricorda il debutto del giovane turco François Truffaut - non vi è solo un filo puramente cinefilo che lega la regista alla nouvelle vague, ma c’è anche un fil sentimental con il regista francese Jacuqes Demy, compagno di vita a cui dedicherà anche un film (Garage Demy); vi è un forte legame viscerale al quale non può sottrarsi. Mona, interpretata magistralmente da Sandrine Bonnaire (interpretazione che le valse il César per migliore attrice nell’86), sembra essere l’alter ego del piccolo Antoine Doinel. Il volto pallido e sozzo, le lacrime richiamano lo sguardo smarrito e in bianco e nero del ragazzino in fuga dal riformatorio, celebrato con un fermo immagine da antologia del cinema. Se il padre della nouvelle vague non avesse dato seguito a Les quatre cents coups, con la romantica saga Doinel (da Baci rubati a L’amore fugge), Senza tetto né legge avrebbe potuto essere il seguito drammatico per il povero Antoine.

Ma perché ha abbandonato tutto? - Meglio la strada e lo champagne - risponde beffarda Mona alla studiosa di platani, che tanto s’affeziona alla ragazza, in preda al riaffiorare energico di un passato affogato lungo la strada prestabilita della sua vita sterile. Ma il ghigno e l’irriverenza si dissolvono nel disperato pianto e tornano alla mente le sagge parole del pastore filosofo - un conto è errare, un conto è aberrare.

Pellicola sincera a metà strada tra finzione e documentario capace di emozionare platea e giuria al festival di Venezia dell’85, e meritato arrivò il Leone d’oro. Credo che Senza tetto né legge sia un film riuscito. E lo dico senza falsa modestia, perché dopo trent’anni che faccio cinema trovo sia il film in cui è meglio realizzata la mia idea di un cinema di fiction su base documentaria –- sostenne Agnes.

Fiction su base documentaria che sarà la principale influenza per certo cinema futuro, proprio belga, come quello dei fratelli Dardenne (Rosetta, L’enfant, Le silence de Lorna), capaci di farci sussultare con le loro vivide immagini calate nella drammaticità della realtà. Realismo, Varda docet.

giugno 15, 2011

Neckar - Demo I


Neckar è la one man band del nostro omonimo redattore, attivo anche nel progetto Spalax e bassista nella band black/death Voyage.
Il Nostro ha composto le quattro tracce che vanno a formare il suo primo demo autoprodotto tra dicembre 2010 e marzo 2011, componendo e registrando il tutto in casa e avvalendosi di un pc per la drum machine e le parti di synth.

Tracklist:
1- Rhem Mountains
2- Robot Trees
3- In the Cave...
4- Abandoned Village

Rhem Mountains: sei colpi di charleston e via, chitarra e basso distorti ci rendono già chiare le mete a cui approderemo, un black metal fatto a regola d'arte in cui la melodia va scoperta pian piano sotto la coltre di riff distorti e urla disumane. La drum machine pesta e il brano è serrato, ma non per questo diventa opprimente e claustrofobico, il sapiente uso delle tastiere e il cambio di ritmo nella parte centrale fanno sì che il brano non stanchi e ci prepari agli ultimi epici minuti di quella che a mio parere è la migliore composizione del demo.

Robot Trees: la traccia più breve, più violenta, più rude sotto tutti i punti di vista. E anche la più brutta, presenta un riff efficace e una buona linea di basso ma nell'insieme è qualitativamente inferiore alle altre, oltre a soffrire dello stesso difetto di Abandoned village cioè la diversità di suoni e atmosfere rispetto ai due brani portanti del lavoro, Rhem Mountains e In The Cave; d'altronde come afferma Neckar stesso: "Robot trees è stata la traccia/prova... si poteva iniziare a lavorare sul serio...".

In The Cave...: Il terzo brano è il più articolato e ricco negli arrangiamenti, dopo una breve intro di synth si ritorna ai livelli qualitativi e alle atmosfere del pezzo di apertura. Una gran serie di riff si alterna per gli oltre nove minuti della composizione e in alcuni momenti le chitarre ricordano un certo death metal melodico di scuola svedese (in primis Katatonia e In Flames). Anche dal punto di vista vocale il brano è più variegato, accanto al growl compare una sorta di cantato pulito.

Abandoned Village: "È strumentale... un loop di drum machine semplicissimo arricchito da armonie intrecciate da una chitarra e un synth... il basso plettrato accompagna il tutto...", così la descrive l'autore. E la descrizione calza, il problema è che il brano dura sette minuti con poche variazioni, è una pausa d'atmosfera che non prelude e non conclude nulla e non ha molta attinenza col resto.

Difficile esprimere un giudizio complessivo sul lavoro, due brani su quattro sembrano più dei riempitivi, la qualità della produzione per ovvie ragioni è (anche volutamente) bassa, ma le idee ci sono (Rhem Mountains e In The Cave sono due pezzi molto validi) e con un buon batterista e una strumentazione migliore...

P.S. A sottolineare la voluta artigianalità del lavoro la copertina, disegnata a mano.

P.P.S. L'album è in download gratuito qui  http://neckar.bandcamp.com/album/demo1, se desiderate il formato cd contattate direttamente Neckar a questo indirizzo neckar85@gmail.com

giugno 14, 2011

Half Life 2


Poco e niente riesco a ricordare del mio più lontano passato, ma mi è davvero impossibile dimenticare le mie primissime avventure videoludiche affrontate grazie al Nintendo 8 bit. Da quel momento in poi non ho mai smesso di giocare ai videogames.
In questo blog ho intenzione di dedicare un piccolo spazio a questa forma d'arte contemporanea, poichè considero il videogame un formidabile mezzo di comunicazione alla pari di un film o di un libro o di un vinile; anzi il videogame è il frutto di una straordinaria contaminazione tra tutte le
arti possibili: disegno, pittura, architettura, informatica, musica, letteratura ecc... Una grandissima e pregiatissima invenzione della mente umana in collaborazione con la mente delle macchine, dei robot, dei computer.

In quest'articolo voglio presentarvi una fantastica avventura virtuale: Half Life 2. Questo videogame è stato rilasciato per PC nel Novembre del 2004, ma solamente il mese scorso ho avuto la brillante idea di installarmelo e godermelo. Si tratta di un FPS = First Player Shooter (sparatutto in prima persona). Come per la classificazione di una band in un determinato genere musicale, anche per i videogames spesso è difficile e poco esaustivo definirne il genere. Half Life 2 è un gioco d'azione in cui la mossa principale del giocatore consiste nello sparare ai nemici che cercheranno di ostacolare il nostro percorso, ma con una buona dose di esplorazione che rende le missioni più avventurose e mai noiose.
La trama è fantascientifica: forme di vita extraterrestri (alieni) riescono, attraverso l'utilizzo di portali in stile Stargate a raggiungere il nostro caro pianeta Terra e tocca a noi, nelle vesti di uno scienziato/soldato (Gordon Freeman), annientarle; una trama abbastanza classica ma che durante il nostro percorso tenderà ad arricchirsi di particolari situazioni grazie ad una ottima caratterizzazione dei personaggi che incontreremo. Si parte da una città/fortezza chiamata City 17 governata da un dittatore umano assetato di potere, il quale alleatosi con gli alieni e sfruttando le loro avanguardistiche tecnologie finanzia un progetto tramite il quale la clonazione di eserciti spietati lo porterebbero alla conquista dell'Universo; utilizzando i portali per gli eserciti non è minimante un problema poter raggiungere qualsiasi altro pianeta. Questa nuova forma di dittatura non tarderà secondo me a comparire sui libri di storia.

Ciò che mi ha affascinato fin dai primi minuti di gioco è l'ambientazione che ci circonda, caratterizzata da ampi spazi occupati da fabbriche sovietiche in disuso e decadenti, canali di scolo impregnati di sostanze tossiche mortali e gelide prigioni; apocalittico. Fin da subito bisognerà adoperare le nostre armi di vario genere (pistola, fucile a pompa, piede di porco, mitragliatore e una pistola gravitazionale), per annientare la fauna aliena. L'avventura si divide in capitoli, ognuno dei quali è ambientato in luoghi diversi: dalle miniere a piccoli e tetri villagi abbandonati, da fantastiche spiagge a autostrade della morte. Si è quasi sempre soli tranne verso il finale in cui alcune squadre di ribelli ci aiuteranno nelle più difficili imprese conclusive.
L'audio in Half Life 2 è curatissimo e efficace. La colonna sonora è formata da brevi composizioni techno/ambient che servono a rafforzare le battaglie più veloci e cruenti contro la comunità Combine (giocateci e capirete cosa sono).
L'IA (Intelligenza Artificiale) dei nemici è ben costruita. In modalità Normale il videogame è scorrevole e più divertente; in modalità più difficile ovviamente il gioco si fa molto più duro e molto stressante.

Half Life 2 è un ottimo esempio di gioco d'azione degli ultimi tempi. L'ambientazione a la giocabilità sono ai massimi livelli. Un grande plauso va ai disegnatori e programmatori di una delle più belle creazioni della storia dell'arte digitale.

giugno 12, 2011

Liturgy - Renihilation



New York, 2009.
Questo capolavoro è stato registrato e curato da Colin Marston...chitarrista dei Krallice (ve li ho presentati in qualche articolo fa). Non smetterò mai di consigliarveli.
Primo album dei Liturgy, pubblicato dalla 20 Buck Spin, etichetta di Olympia (WA). Ennesimo marchio di qualità statunitense.


Disco eccezionale.
La tracklist è formata da quattro intermezzi denominati 'Untitled' e da sette tracce formidabili. I Liturgy suonano principalmente un personalissimo black metal. Serrati, spietati e con un gusto completamente diverso rispetto a band che cercano in tutti i modi di riprendere semplicemente l'oramai vecchio black metal europeo. I Sonic Youth del black metal tanto per capirci.
In quest'album respiro freschezza; un genere musicale che si rigenera e si contamina.
E' molto forte in me la necessità di portare a galla questa band. La solita storia...gli Stati Uniti sfornano sempre ottima Musica. Imparagonabili.
Su Ebay o sul sito che ho precedentemente inserito, lo trovate in versione vinile intorno agli 11 euro. Vale la pena di acquistarlo. Ma tanto...scarichiamo no...? Per fortuna negli Stati Uniti band del genere hanno spazio nei locali e non hanno bisogno di vendere molti dischi per campare.

Un brano di 'Renihilation' eseguito live: Pagan Dawn

giugno 06, 2011

Folk Bottom vol.1 - 10 capolavori del folk-psichedelico europeo





































L’idea di Folk Bottom è quella di una rubrica interamente dedicata al folk-psichedelico, ed in generale ad un folk piu’ strettamente sperimentale ed impegnato, lontano dalla classica forma delle ballate di stampo americano, e piuttosto volto ad ampliare le sue possibilità espressive sia estendendosi nel tempo che abbracciando le innumerevoli sfumature sonore di contesti culturali diversificati. Un folk di spirito romantico, visionario e fiabesco, che abbraccia una poetica volta ad identificarsi con le impressioni della natura, di cui riproduce suoni ed effetti, ora pacati e sereni, ora onirici, ora aleatori e chiaroscurali. Con “folk” potremmo intendere allora un elemento minimo di tradizione sonora e con “psichedelico”, non tanto o non solo i richiami con il rock-psichedelico, ma soprattutto il concetto di “apertura”, di qualcosa che innesta su quell’elemento di partenza tutta una serie d’influenze sonore appartenenti ad aree geografiche di tutto il mondo. Musica celtica, ritmi africani, misticismo orientale, blues, country, calore latino, tradizione classica e quant’altro…possono fondersi con il jazz , il rock e l'elettronica producendo di volta in volta ibridi affascinanti, ora complessi, ora semplificati ma di formula efficace. Folk Bottom appunto…il fondo del folk…da intendere quasi o anche come la fine del folk…o meglio immaginare qualcosa che va ben oltre il folk come potremmo essere abituati a pensarlo. Quello del folk-psichedelico fu una poetica che interessò soprattutto gli anni Sessanta e Settanta ma non mancano oggi validi esempi di fusione che testimoniano il voler comunque rifarsi a certi valori, che, in una società sempre più globalizzata e industrializzata, vogliono piuttosto ricondurre alla pace e al profumo della madre-terra. L’idea è dunque di creare un ponte di ricerca tra passato e presente, cercando di far sempre fronte ad una concezione ampia di folk…testimone soprattutto di una giocosità creativa e di una lucida osmosi tra ragione e follia, chiaramente difficile da spiegare con il solo potere della parola. In questo primo appuntamento si passano perciò in rapida rassegna 10 lavori che con merito possono essere valutati tra i massimi capolavori del folk-psichedelico europeo nella sua stagione d’oro. Nei lontani anni Sessanta quella suggestiva poetica musicale s’insinuò soprattutto nell’amore trionfante di tante comuni hippie e forse è proprio all’interno di una sentita necessità di creatività collettiva che vanno individuate le sperimentazioni più incredibili e coinvolgenti, misteriosi sbocchi musicali di concezioni di vita alternativa.




Una sorta di manifesto assoluto di visionarismo potrebbe essere quello di cui erano affetti Robin Williamson e Mike Heron della scozzese Incredible String Band. Tutta la purezza della loro genialità è racchiusa nell’album The Hangman's Beautiful Daughter del 1967. Il loro mondo fiabesco è abitato da minotauri, rivestito da giardini incantati, e musicato da una miriade di strumenti di gusto esotico…e la luce del sole è l’unica guida della loro avventura esistenziale, come ben si evince dal cantato insistito nella lunga A Very Cellular Song, uno dei massimi vertici dell’arte freak dell’epoca. Vicino alla Incredibe String Band sono le atmosfere che sprigionano dall’Irlanda i Dr.Strangely Strange, specialmente con l’album Kip Of The Serenes del 1969. Sempre in terra anglosassone si distinse la cooperativa artistica della Pricipal Edwards Magic Theatre, con una proposta intrigante a cavallo tra teatro, circo, danza e folk “progressivo” di ricamata fattura, esemplare in Soundtrack del 1969, che include la bellissima Sacrifice. Del 1971 è invece l’immenso First Utterance dei Comus, artefici di un' immagine di folk d’avanguardia assolutamente personale e mai ripreso da nessun altra formazione; un’immagine fatta di momenti di delicato lirismo, animata da tribalismo percussivo e tradizione folklorica nord-europea. I passaggi di rara bellezza sono nella lunga suite The Herald di 12 minuti…e nelle sfrenate danze di Diana, Drip Drip e Song To Comus. Nel circuito “underground” londinese fu davvero atipico anche il progetto della “banda del terzo orecchio”, ovvero della Third Ear Band, volto a un recupero innovativo delle sonorità medio-orientali (persiane in primis) all’interno di un quadro dove gli elementi da musica da camera sono ormai distensioni ipnotiche e intrecci psichedelici infiniti. L’omonimo album del 1970, anche conosciuto come quello dei 4 elementi empedocliani (Air, Water, Fire, Earth) è forse l’esperimento più maturo, dove appare chiaro che il recupero di certe sonorità lontane non è superficiale, ma che la sua piena comprensione è tale da far nascere "tappeti" radicalmente nuovi per l’ascoltatore. Altro polo di sperimentazione privilegiata fu la Germania dove nel 1972 uscì il bellissimo primo album degli Hoelderlin. Reqiem für einen Wicht e Traum sono le perle di questo Holderlins Traum, capolavoro del folk teutonico e figlio di un’autenticità artistica ineguagliabile, dove il flauto, il violino, e l’angelica voce femminile sono i tramiti trascendentali preferenziali. Altro disco importante del circuito tedesco fu l’omonimo dei Broselmaschine dell’anno precedente, frutto della fantasia del pluristrumentista Peter Bursch. Mentre dalla prima costola degli Amon Duul fu prodotto il flusso chitarristico di Paradieswärts Düül, con la lunga e meditativa Love Is Peace di 17 minuti…preludio vitale di un viaggio imperdibile. Ed infine la coppia teutonica piu’ bizzarra ed influente del tempo… Il duo celebre Witthuser & Westrupp responsabili delle mirabili intuizioni raccolte in Trips Und Traume del 1971. Il brano Laßt uns auf die Reise gehn sarà interpretato anche negli anni ’90 dal duo (sempre tedesco) Fit & Limo…mentre le esplorazioni in Trippo Nova, Orienta e Karlchen rappresentano l’apice del loro immaginario spirituale. Dunque tanto era già stato detto nel’arco di pochi anni…ma un altro personaggio geniale doveva ancora arrivare…il suo nome era Simon Jeffes e questo arrivò nel 1976 inaugurando con l’emblematico Music From The Penguin Cafe la stagione felice dell’indimenticabile Penguin Cafe Orchestra, pioniera di tante fusion “world” future che saranno, a confronto, prive di mordente.





























Discografia


Comus / First Utterance 1971



The Incredible String Band / The Hangman's Beautiful Daughter 1967


Dr.Strangely Strange / Kip Of The Serenes 1969


Principal Edwards Magic Theatre / Soundtrack 1969


Third Ear Band / Third Ear Band 1970


Hoelderlin / Holderlins Traum 1972



Broselmaschine / Broselmaschine 1971


Amon Duul / Paradieswärts Düül 1970



Witthuser & Westrupp / Trips Und Traume 1971


Penguin Cafe Orchestra / Music From The Penguin Cafe 1976