marzo 30, 2011

Alone urbano


Lunedì scorso la Hyperdub ha rilasciato, a sorpresa, un’altra perla firmata Burial. La celebre etichetta inglese negli ultimi sei anni si è resa protagonista, attraversando quell’ondata post UK garage di inizio millennio, sfornando ellepì di grande impatto, sempre in anticipo, sempre un passo oltre alla scena musicale d’Albione e non solo. Era il 2004 quando il producer/fondatore della label Steve Goodman (Kode9) presentava l’ambizioso progetto : “ Hyperdub è la mutazione culturale che emerge dove entrano in collisione gli oceani di suono analogico e digitale. Il futurismo ritmico black atlantico è la più prolungata e rigorosa esplorazione di queste mutazioni cyborg “. Goodman ha individuato nel concetto di Black Atlantic, elaborato dallo studioso inglese Paul Gilroy, la teoria per narrare e studiare la diffusione del suono. Questa elaborazione teorica vede la diaspora africana come elemento di influenza sulla cultura musicale del XX secolo; Nord e Sud America, Africa ed Europa occidentale sono viste come un grande network sonoro. Se prendiamo questa riflessione e la inseriamo nel contesto urban/dance, sostiene Luca Galli della rivista Blow Up, vediamo come quest’ultimo sia divenuto sempre più complesso e addirittura insidioso. Tra i Groove Chronicles (seconda metà anni novanta) e i Kryptic minds (2009), i confini temporali, la variazione del contesto è stata rapida e furibonda: innovazioni nella comunicazione e trasmissione delle informazioni, accessibilità ai mezzi di produzione e riproduzione musicale e alla stessa fruizione della musica (mp3). Il tratto caratteristico degli ultimi quindici anni di suoni urban/dance è stato il precoce esaurimento, l’aridità creativa, l’appiattimento sonoro per sovraccarico e abbondanza: drum’n’bass prima, minimal poi e il dubstep ora sono entrati in collisione con la produzione industriale, melliflue operazioni di marketing che hanno trascinato il sistema musica verso il proprio declino. La Hyperdub, invece, si è sempre distinta dalle altre etichette analizzando il suono, vivendolo completamente, tralasciando trend e moda del momento. Per questi anni il cuore della label ha continuato a pulsare come agli albori: basso, remixologia e ritmi accelerati.

Il ragazzo di Londra, William Bevan a.k.a. Burial, dopo la recentissima collaborazione con Four tet (nuovamente, dopo quella del 2009: Moth/Wolf Club) e sir Thom Yorke (tra i primi fan del pupillo di casa Hyperdub), torna alla ribalta con un eppì, Street Halo: tre tracce, circa venti minuti. L’enigmatico ragazzo che era riuscito ad eclissare il manifesto della label, Memories of the future di Kode9, con il suo debutto omonimo nel 2006 e il formidabile sèguito Untrue (2007) , tra i migliori album del decennio scorso, è ricomparso dopo quattro lunghi anni con un piccolo disco tutto suo. Ogni produzione a nome Burial fa tremare il mondo musicale, la rete e i fan avvezzi alla sua distinta e raffinata classe; il silenzioso eremita, chiuso nella sua torre d’avorio a smanettare synth e drum machine, quando decide di rilasciare le sue gemme fa rumore, e ne fa tanto. La title-track, Street Halo, riprende l’epilogo di Untrue, Raver con l’incedere laconico e caustico riesumando l’anima dancehall di Moth, tra le vette della sua produzione. NYC è un vagabondare senza meta: soul impalpabile, sussurrato, una confessione svogliata, labile ma preziosa che ci conduce al culmine del prodigioso disco. Stolen Dog, un beat soffiato dalle cuspide e gelide montagne di Kid A che precipita nelle fumose strade di Londra; le voci di stampo UK garage vengono distorte in un riverbero intriso di malinconia, la malinconia di un ragazzo cresciuto all’ombra del brumoso e profondo basso di Stone Cold dei Groove Chronicles – It’s dark. That tune’s never left my head. That tune is still going around my head from the first time I heard it. And the thing about those drums: they’re still the future - ha affermato Bevan in una delle sue rare interviste. E’ il solito Burial, in stato di grazia, con la sua folgorante emotività ovattata, endorfina, la profonda sensazione di smarrimento, acquiescenza, eiaculazione e languore: la celata nostalgia per qualcosa di mai vissuto. Burial è dentro la cerchia dubstep, ma anche fuori al contempo: si può parlare di Burialismo, un culto che trascende il suono - atmosfera rarefatta poltiglia cinerina, l’auto che passa con l’autoradio al massimo e i finestrini serrati, appannati, bagnati dalla pioggia, fogli di giornali spinti da gelidi refoli per vicoli bui e dimenticati della città, la fine di una festa e una torma di corpi sudati, narcotizzati, immacolati che vagano verso casa.

Il genio è tornato !


Un ringraziamento speciale a Luca Galli per il suo esauriente e prezioso articolo sui cinque anni della Hyperdub scritto sulla rivista Blow up (mensile 138, novembre 2009)

ascolta i brani:

street halo
NYC
stolen dog


marzo 28, 2011

Classica Orchestra Afrobeat : nuovi orizzonti di un "ritmo cosmico" africano



Nel corso della loro storia, le disparate esperienze della “world music”, hanno visto nascere ricerche sempre più innovative, commistioni stilistiche e disponibilità verso sintesi sempre diverse che hanno come possibile corollario la realizzazione di prodotti ibridi e apparentemente disorganici…
ma portatori di un loro fascino tutto segreto.
Il problema magari potrebbe sorgere in tanta “world music” retorica e di facile consumo… quasi che la musica si riducesse ad un puro “collage” di pedissequi elementi “etnici”, senza una ideale fusione o autenticità, assistendo piuttosto, in una società mondiale sempre più globalizzata, all’esigenza primaria di esprimere le singole radici della propria terra d’origine.
“Interpretare” nella musica dovrebbe significare semplicemente “conoscenza”, capacità di penetrare nelle sue più celate strutture ritmiche, armoniche e melodiche…ma capacità anche di accedere alle sue fondamenta extra-sonore...
Percorso raggiungibile solo attraverso vivendola intensamente nei tempi anche morti del quotidiano…con impegno…empatia…e passione.
Solo così, rileggendo in questo modo determinati repertori (vocali o scritti), potremmo sottrarli all’oscura via dell’oblio, tenerli in vita assicurando loro una continua "rinascenza", aprirli ad inesplorati “nuovi orizzonti”.
Tra la fine degli anni’60 e ’70 (e fino alla sua morte) Fela “Anikulapo” Kuti incarnò forse nella maniera più radicale quel “rifiuto”, quella “nuova sensibilità” che, argomentando Marcuse, era "divenuta una forza politica, una praxis che emerge dalla lotta contro la violenza e lo sfruttamento dove questa lotta sia condotta per ottenere modi e forme di vita essenzialmente nuo
vi: la negazione dell’intero establishment, della sua morale e della sua cultura; l’affermazione del diritto di edificare una società in cui l’abolizione della povertà e della fatica si concluda in un universo dove il sensuale, il giocoso, il calmo, il bello diventano forme di esistenza, e pertanto la forma stessa della società”.
Certo, la “controcultura” di Fela fu strettamente legata al suo paese d'origine, la Nigeria, ancorata ai vari problemi coloniali, sociali e religiosi, ma il suo sentito “pan-africanismo”
trascendeva i confini dell’Africa per diffondere il suo messaggio a tutto il pianeta…
Con la sua musica, oppose a quel “establshment” un “ritmo cosmico” terapeutico, che derivato da una personale miscela di highlife, jazz, funk, calypso, canti e percussioni Yoruba…definiva come la “moderna musica classica africana”…ovvero l’afrobeat.
Quel “groove” ipnotico, ossessivo e mantrico, che era nella sue composizioni rappresentava la cellula madre di ogni cosa…il vero significato di tutto…un nucleo fatale d’energia sul quale si innestavano la corposità dei fiati e l’invocazione ritualistica di cori femminili…nonché i voli lunatici di "tastierine" psichedeliche..
Non stupisce che, se il suo “modello” fu il tentativo più efficace di colmare la divisione tra mente e corpo, unificare il potere della parola con il potere del ritmo, usare il potere metamorfico della musica per elevare gli spiriti o guarire dalla sofferenza, ha avuto e ha ancora oggi fedeli imitatori (si pensi a gruppi come Antibalas e Daktaris).
Ma quando ascoltiamo per la prima volta la Classica Orchestra Afrobeat ci accorgiamo subito di essere di fronte a qualcosa di veramente nuovo e sorprendentemente originale…
Forse nel rock-progressive degli anni ’70, quando si attingeva a piene mani dai repertori barocchi, qualcuno avrà pur utilizzato l’elegante clavicembalo…ma in quel caso sarebbe stato come se, nel medesimo quadro di musiche d’origine europea, un figlio ereditasse qualcosa da un antico
padre…anzi da qualche più lontano antenato.
Altra cosa è prendere un clavicembalo, o un violino, o addirittura una quasi desueta viola da gamba…e farli dialogare con le poliritmie africane, osando un incontro di culture difficile da immaginare.
La formula magica trovata dalla Classica Orchestra Afrobeat, d’interpretare alcuni tra i brani più coinvolgenti di Fela Kuti alla luce di un ensemble che si rifà alla musica classica e barocca colta, appare invece come un’intuizione fulminea nel pieno della sua freschezza…
Dopo alcune uscite live di rodaggio nel corso dell’estate 2010, i mirabili arrangiamenti (quasi interamente strumentali dal vivo) trovarono un loro equilibrio ideale in occasione del concerto tenutosi a Russi nella sera del lunedì 20 Dicembre. Quel giorno nel soffuso ambiente del Teatro Comunale della piccola cittadina in provincia di Ravenna, l’Orchestra raccolse a ritmi sincopati e a colpi di pennello…l’infuso rassicurante dei suoi meritati frutti…
Dopo aver rotto il ghiaccio con le bellissime versioni di No Agreement e Mr.Follow Follow, anche in Shenshema si percepiva una piena sinergica e fantasiosa simbiosi tra gli archi, i fiati e la base ritmica, tanto nelle parti soliste e più improvvisative (gli assoli di clarinetto in primis), che nei momenti corali. Poi un primo sussulto di stupore nell’introduzione di Go Slow del clavicembalo (laddove nell’originale è con un ruvido rhodes)… e medesime sensazioni positive nella trainante Observation Is No Crime…per arrivare al gran finale con Water No Get Enemy e naturalmente la mitica Zombie.
Forse però l’emozione più grande di quella serata fu ascoltare quel “Ra-Ra-Ra-Ra Ra-Ra-Ra-Ra” nell’avvolgente pathos della pseudo-ballata Trouble Sleep Yanga Wake Am…uno dei temi più belli in assoluto di Fela, dove fece la sua comparsa inattesa una timida ma divertita ocarina.
E così i presenti…o almeno quelli più sensibili, potettero essere trasportati altrove…in una radura di vibrante felicità con nessun suono…solo immagini per l’orecchio…nessun colore…solo melodie per l’occhio…nessun contatto…solo odori per le mani.
Apparve chiaro che il dialogo con il referente originale era sottile ed evocativo, nonché evanescente nella sua ambiguità…
La rivisitazione e la visione dell’afrobeat dell’Orchestra profumava di una classicità arrugginita, come quando l’antica patina di un quadro nasconde all’osservatore le ultime velature del pittore, poiché rimaneva comunque viva la memoria di certi grooves velenosi e primitivi…
Tutto era trasposto da un istinto “nero” sanguigno e calato in un “bianco” dolce tepore…ma in realtà il processo e il movimento emotivo restava sempre oscillante…si rimaneva "selvaggi" con percussioni di sapore ancora esotico ma non pred
ominanti…si diveniva "uomini" con gli accordi della viola e del violino e con il suono raffinato del clavicembalo (che subentrava a un più acido organo elettrico)…ci si elevava al cielo con la "divinità" del flauto, dell’oboe o del fagotto che sostituivano la maggiore incisività dei sax e della tromba.
Come prevedibile per la coerenza di una normale orchestra da camera, la diversità apparve lampante anche nella dimensione scenica…
L’orgiastica figura del Fela performer-danzatore in visibilio…cedeva il posto alla tranquillità“zen” del batterista-direttore che con pochi sguardi muoveva e dirigeva tutto…
Intorno a lui si racchiudevano i restanti compagni …
Era un quasi semicerchio…un “abbraccio doppio” piuttosto…rivolto e indirizzato al pubblico…ma anche auto-riflessivo e dimostrativo di una pacata e controllatissima attenzione nell’esecuzione.
La grandezza della Classica Orchestra Afrobeat stava anche nella volontà di comunicare soprattutto la profondità dell’impegno profuso nella ricerca musicale, e questo anche attraverso un coordinato impatto visivo (intimamente legato alla dinamica sonora), dove l’esibizione si poneva nei termini di una prioritaria offerta musicale…e di certo quell’"abbraccio" non era fine a se stesso, ma funzionale alla migliore e perfetta riuscita della performance, la cui spettacolarizzazione poteva dipendere al massimo dalla variopinta esibizione del gran numero di strumenti.
Dunque, quel “ritmo cosmico” raggiungeva nuovi orizzonti, con una formula equilibrata, che rispecchiava il fascino di entrambe le tradizioni, quella africana e quella europea, con un osmosi che dimostrava una piena assimilazione e comprensione della musica di Fela Kuti.
Certo, trasportare un’idea da un contesto a un altro è spesso sufficiente ad alterare il senso e l’importanza o a restituirci il suo valore trasgressivo…e comunque il semplice atto di appropriazione e trasposizione determina un cambiamento nell’originale.
Ma la Classica Orchestra Afrobeat rende semplicemente omaggio al genio Fela Kuti…e lo fa alla sua maniera, non toglie né aggiunge nulla alla sua visione musicale, ne accresce solo la spiritualità…la valorizza…ne amplia i colori e la possibile infinita timbricità…conserva e amplifica il tentativo di esprimere una "sensazione di pace" per la costruzione di una grande coscienza, prima collettiva e poi individuale.
L’allegria e il pathos che trapelavano dalle composizioni di quel "guru yoruba" si fossilizzano in un nuovo sguardo “pioneristico”…che con gioia sarebbe stato accolto nei confini della "repubblica di Kalakuta".
Per di più attraverso un ensemble di sola strumentazione acustica (se si eccettua la presenza di un basso elettrico fondamentale per il groove) che suggerisce anche un approccio e rimando maggiore alla natura…ai suoni della terra…prendendo distacco da una industrializzazione sempre più imperante…che il Fela politico tanto avversava.
Forse non è un caso che la mirabile idea di questo progetto sia nata nella silenziosa campagna romagnola, dove un nutrito gruppo di musicisti provenienti dalle più disperate esperienze e formazioni musicali (classica, jazz, latino-americana, libera improvvisazione, popolare, contemporanea etc.) si sono riuniti sotto la guida del batterista e percussionista Marco Zanotti, vacillanti nell’amore di quelle zone agricole e pastorali, condividendo la medesima passione per la musica secondo un’indole votata alla spontaneità e a piccoli sprazzi di lucida ed estemporanea semplicità.
E dopo quella rivelazione invernale aspettiamo con ansia l’arrivo del fiore maturo nella tarda primavera…
L’uscita dell’album “Shrine On You(Fela Kuti Goes Classical) registrato dal vivo nel medesimo teatro di Russi (allestito per l’occasione come uno studio di registrazione) nei giorni precedenti al concerto, e contenente tra l’altro un breve dvd documentario sul progetto, è prevista per Giugno…Aspettiamo solo di poter comodamente godere delle intense e rare atmosfere della Classica Orchestra Afrobeat, seduti sul divano di casa…magari alle luci meditative di un’incantevole “madrugada”.



L’Orchestra

Alessandro Bonetti / violino, mandolino
Anna Palumbo / percussioni
Cristiano Buffolino / percussioni
Cristina Adamo / flauto
Elide Melchioni / fagotto, ocarina
Francesco Giampaoli / basso, contrabbasso
Marco Zanotti / batteria e direzione
Rosita Ippolito / viola da gamba
Silvia Turtura / oboe, corno inglese
Tim Trevor-Briscoe / clarinetto
Valeria Montanari / clavicembalo


Musiche di Fela Anikulapo Kuti
Arrangiamenti di Marco Zanotti & Classica Orchestra Afrobeat

marzo 27, 2011

Gli amori impossibili

La classe visionaria di Gus Van Sant, l’indole poetica di Sofia Coppola e la sensibilità orientale di Wong Kar-Wai: potrebbe essere un epiteto plausibile per introdurre il/al cinema di Xavier Dolan, giovanissimo cineasta e attore canadese (Québec, précisément).

Il lungometraggio, J’ai tué ma mère (Io ho ucciso mia madre), è il primo tassello di una struggente trilogia, in lavorazione, sugli amori impossibili: la storia semi-autobiografica che vede lo stesso Dolan protagonista interpretare magistralmente un adolescente in eterno conflitto con la madre(Anne Dorval). “On aime sa mère presque sans le savoir, et on ne s’aperçoit de toute la profondeur des racines de cet amour qu’au moment de la séparation dernière”, l’iniziale schermata nera su cui rifulgono lattiginosi questi versi di Guy De Maupassant condensa la serie di immagini vivide che ne seguiranno. La deflagrazione tra madre e figlio è il leitmotiv dell’intera pellicola: un incessante rinfacciarsi di promesse non mantenute, di abbandono, egoismo e assenza di amore. Attraverso primi piani in bianco e nero, catturati segretamente con una piccola videocamera, il sedicenne e omosessuale Hubert si racconta, e racconta il travagliato rapporto con la madre mediante auto-interviste toccanti che ripercorrono l’idilliaco legame di infanzia frantumatosi col passare degli anni. L’insperata riconciliazione finale, sfumata da vecchi filmini in super8 su commoventi note di pianoforte, si concretizza nel luogo dell’infanzia di Hubert, sul retro della casa in campagna, sulla roccia, altare dell’amore incondizionato. Appena ventenne, Xavier Dolan, con questo folgorante debutto attira l’attenzione di pubblico e critica aggiudicandosi importanti riconoscimenti al festival di Cannes del 2009 (Premio Art Cinéma, Premio SACD e Premio Regards Jeunes), e quattro nomination all’oscar francese, il César.

L’atteso ritorno dietro la macchina da presa, e anche narcisisticamente davanti, si realizza nel 2010 con Les amours imaginaires.

Altra citazione, di Alfred De Musset questa volta, apre il film: ”Il n’y a de vrai au monde que de déraissoner d’amour”, ovvero non c’è niente di vero al mondo oltre all’amore folle, l’amour fou. Bissa e va oltre il successo del 2009, incantando nuovamente Cannes e facendo incetta di premi al Sydney Film Festival. La forte amicizia, fratellanza, tra Francis (lo stesso Dolan) ragazzo sensibile e omosessuale, e Marie (Monia Chokri) affascinante silfide nevrotica, viene messa in subbuglio dalla comparsa in scena del bell’Adone Nicolas (Niels Schneider). Nicolas con affilata civetteria e atteggiamenti ambigui farà esplodere una silente gelosia e rivalità tra i due amici diventando il recondito desiderio, ”la possibilità di essere amati, non di amare” dice Dolan. L’utopia del menage a tròis, Truffaut docet, avrà il suo culmine sul tappeto paglierino di foglie d’autunno, durante un apparente pacifico week-end in campagna, quando i due amici s’azzufferano animalescamente per contendersi il bell’Adone che interverrà dolceamaro chiosando come un dio “chi mi ama mi segua”. Latitante dai due, dopo l’episodio che ha svelato i sentimenti “pericolosi” e scottanti di Francis e Marie, verrà ancora conteso, ma a distanza, con frenesia isterica, ultimi bagliori di uno stremato amour fou. Nicolas diverrà un miraggio rarefatto, stordimento della memoria; la lenta “morte” di Adone, pur sofferta da parte di Francis e Marie, non spingerà i due amici a battersi il petto e a strapparsi le tuniche come suggerì Saffo, ma a ricongiungersi, ritrovare il primordiale legame. Come nel precedente film, il flusso narrativo è frammentato: zoom dinamici ghermiscono espressioni, parole sulle piccole e grandi delusioni d’amore, sulle attese e speranze, sugli amori impossibili di ragazzi di vita. “Non è un film generazionale, è un film sulla giovinezza !” tuona Dolan.

Il suo cinema ammalia con quel tocco onirico nei disperati amplessi, succhiati alla vita, suggellati con leggiadri frammenti à la Gus Van Sant (riprendono gli amplessi stigmatizzati in fotogrammi di My own Private Idaho) girati alla moviola con grazia rigogliosa. Le inquadrature oculate, le pose studiate e languide alla ricerca di una staticità compositiva pittorica, fotografica rievocano la Coppola più ispirata, superandola. La sensibilità ed eleganza della camera che lemme sfila come un ombra sui corpi disegnando precise pennellate tese a intingere volti, profili, corpi in un effluvio epico, rifinito da una colonna sonora di gran classe, ricordano il Wong-Kar-Wai di In the mood for love e 2046. Torreggia la commovente Bang bang interpretata da Dalida e che risuonerà spesso durante il film e svettano brumose note di trascinante emotività: Pass this one dei The knife, congelerà il parallelismo immaginario tra Nicolas e la statua di Adone, Keep the streets empty for me dei Fever ray, sigillerà la pittoresca sceneggiata di campagna. La costante ricerca di epicità, di “estrema bellezza” direbbe l’edonista Dolan, tra suono e immagine è la chiave del suo cinema: cesellare prodigiose sequenze in slow (e)motion, quasi a voler esorcizzare tempo e materia, scavando un passaggio di segreta connessione, sympatheia tra spettatore e attore, tra pubblico e divo/a (espliciti riferimenti a Jeams Dean e Audrey Hepburn) in una celebrazione dell’eterno culto della bellezza. Xavier Dolan è il nuovo dandy del cinema: “adorable e formidable“ direi, citando un brano dei suoi adulati Viva la fete.

A giorni inizieranno le riprese del nuovo film, la cui uscita (non in Italia come del resto per i precedenti film e lo stesso regista se ne rammarica) è prevista per il 2012: Laurence anyways, la storia ambientata negli anni ottanta di una transessuale, chiuderà la trilogia e avrà come protagonista Melvil Poupaud, attore feticcio di un altro celebre e giovane regista, il prolifico francese François Ozon. E Ozon è sicuramente un modello importante per Dolan, soprattutto per le tematiche trattate: l’omosessualità (biografica, visto che entrambi sono apertamente gay), i delicati rapporti interpersonali, le incomprensioni d’amore, la giovinezza, GLI AMORI IMPOSSIBILI.


http://www.youtube.com/watch?v=tDa0CkKjfsk J'ai tué ma mère trailer
http://www.youtube.com/watch?v=znpU_Aup-Bg Les amours imaginaires trailer