aprile 15, 2011

Panda Bear - Tomboy



Eccolo qua. Alzi la mano chi lo stava aspettando e nel frattempo, tra cazzeggio pomeridiano, erba e trip post-figli dei fiori ballava indiavolato sulle chitarre hypnofreakeggianti di una Bros o di una Take pills. Io. E però questa volta, il successore di Person pitch (2007, bei tempi) fornisce un motivo in più per ballare ma non per gridare al miracolo. Tomboy è la seconda fatica di Noah Lennox, aka Panda Bear e il motivo in più per ballare è che c’è tanta ritmica. Tanta. Ma solo quella in effetti. Person Pitch ci aveva mostrato un immaginario sonoro emotivamente dirompente: accordi di chitarre acustiche pestate a sangue, qua e là un po’ di collage sonoro elettronico che non fa mai male e soprattutto quel senso di movimento corale, generatore di un caleidoscopico sussulto emozionale e di uno spettro sonoro fatto dei colori dell’arcobaleno. La copertina di quel disco è chiara più di ogni altra cosa si possa dire. Con Tomboy rimangono le estatiche atmosfere, rimane la cifra stilistica del Nostro, continuano i girotondi di voci, le odi a bocca spalancata e le braccia al cielo, continua la festa ma nessuno è veramente sbronzo. You can count on me e la stessa Tomboy sono un esempio di quanto detto: dub per alzare le ginocchia e nulla più, rimane solo un bel coro nelle orecchie. E per ribadire la cosa, se Slow motion è puro hip-hop, Surfers hymn sembra una pizzica con tanto di sistor e tubular bells. Fino a qui tutto bene. Drone smorza l’effetto-danza con bordate di synth e la continua voce di Lennox che allunga sillabe e vocali, un inno. Alsatian Darn ha una bella melodia che svela la pronunciata vena pop di Panda Bear, con le chitarre che questa volta sono elettriche e usate con meno irruenza e più coesione col resto. Fino a qui tutto bene. Sceherazade è l’episodio più buio di tutto il lotto, e forse anche il più riuscito vista la sua cupezza e il suo senso di intangibilità. Bella davvero. Ancora di più alla luce di Afterburner che sembra uscita dai cassetti nascosti di Giorgio Moroder (ma quando finirà l’ondata revival anni ’80?) e a chiudere, Benfica, con tanto di cori da stadio nemmeno troppo nascosti. Fino a qui tutto bene. Appunto, fin troppo. Non c’è nessuna caduta ma nemmeno nessun volo. Tomboy registra una certa staticità, figlia di una chiara standardizzazione del proprio sound e del proprio stile. Niente di male ma nemmeno di bene. Sembra quasi coincidere con la parabola degli Animal Collective dei quali Lennox fa parte: uno primo periodo fatto di chitarre ed estemporane corali multimelodiche e una seconda, che parte da Strawberry Jam e viene portata a compimento nello sfacciatamente pop Merryweather post pavilion. Insomma, Tomboy è un disco ascoltabile ma non imprescindibile. Per il resto, potete continuare a ballare e fumare la vostra erba.

3 commenti:

  1. Ho sentito qualke pezzo in maniera un pò disordinata...tracce tutte +o- valide, Sceherazade secondo me c azzecca davvero poco col resto (almeno xquello ke ho sentito).
    Nota: m fa piacere ke ogni tanto s scriva anke su qualcosa ke nn sia il massimo...

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  2. Secondo me Sceherazade è bella proprio per quello, completamente differente da tutto il resto...poi secondo me meritava attenzione sto disco, visto che il precedente è uno dei più belli ascoltati negli ultimi anni.

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  3. pienamente d'accordo con Brother James, che tral'altro in una frase ha riassunto alla perfezione la grandezza di Person Pitch.
    Ci sono leggere variazioni rispetto a quel capolavoro (alcune ottime altre imperdonabili come l'abuso del synth e del sequencer) ma in effetti Panda Bear sta continuando a esplorare in quella direzione, un pop allo stesso tempo coeso ed etereo.

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