dicembre 28, 2011

No Man's Land : per una mappa geografica del jazz-rock europeo!


Quello del jazz-rock, in quanto teatro e laboratorio di sperimentazione totale, rappresentò certamente nei lontani Settanta un fenomeno europeo di grande impatto emotivo. La fusione per eccellenza, quella tra il jazz e il rock, si presenta come una No Man’s Land, una terra di confine dove strutture, strumentazioni e tradizioni extra-musicali di queste due rispettive realtà sonore s’incontrano senza stabilire una netta differenziazione, ma in maniera pacifica miscelano i loro ingredienti senza volontà di primeggiare sull’altra, dando piuttosto spazio ad un osmosi segreta ed equilibrata. Una “terra di nessuno” dunque, dove il jazz si apre a sfumature timbriche di diverse culture che coesistono magicamente dando vita ad un luogo d’azione d’ampio respiro percettivo. Voler fornire un quadro completo del panorama jazz-rock europeo degli anni Settanta risulta essere certamente un'operazione complessa, ma che possiede un suo fascino, dettato dalla curiosità di andare a scovare, anche in paesi poco considerati e che trascendono i classici confini del mondo musicale anglo-sassone, formazioni di spiccato interesse e d'indubbio valore artistico! Questo stimolo verso un'esplorazione libera, questo anelito verso l'ampia ricerca di una specifica tendenza sonora, potrebbe portare alla redazione di una sintetica "mappa geografica" del jazz-rock del vecchio continente, che per quanto incompleta, (sarebbe interessante capire qualcosa circa la situazione in Grecia e Portogallo) e perciò suscettibile di continui aggiornamenti man mano che ci s'imbatte in nuove "sorprese" o addirittura sensazionali scoperte, possa essere un ottimo strumento per orientarsi nelle ricamate e variopinte pieghe di un ventaglio ricco di proposte, testimoni appunto della diramazione del fenomeno stesso. L'operazione porta chiaramente in sé un suo saldo coefficiente di rischiosità, poiché se non è raro imbattersi in veri e propri "gioielli di creatività", allo stesso modo è molto probabile il doversi confrontare con ascolti ridondanti, privi di mordenti sia sul piano compositivo che sonoro, e visibilmente troppo vincolati ai loro modelli d'ispirazione originali. Questo è vero soprattutto se ci si confronta con realtà politiche e sociali come quella dell’ex Unione Sovietica, dove le novità che approdavano, se spesso elaborate in maniera pedissequa, e quindi risultanti noiose alle orecchie più abituate ai clamori occidentali, acquistavano però un significato tutto particolare per la gioventù locale, impegnate nella lotta verso una necessaria e troppo invocata libertà. Quando l'Europa musicale dell'inizio dei Settanta aveva già consacrato l'avvento della fortunata stagione del rock-progressive britannico, del kraut-rock tedesco e dei differenti focolari geografici di un folk oscillante tra revival e sperimentazione,si presentava anche come vasto terreno fertile pronto ad accogliere il nuovo seme piantato oltreoceano, e divenuto fiore maturo grazie alle fatiche di Miles Davis,Weather Report,Return To Forever o dell'indipendente Frank Zappa,capaci di sintetizzare e plasmare in materia nuova soluzioni già apparse nell'ambito del free-jazz e della New-Thing americana. E'importante però notare come personalità di grande spessore come Miroslav Vitous o Joe Zawinul dei Weather Report erano di origini europee (rispettivamente ceco e austriaco), come anche di nazionalità inglese era un John Mclaughlin, già presente in Bitches Brew e nei successivi dischi del periodo d'oro di Davis, e poi alfiere di un sound personalissimo con la Mahavishnu Orchestra. E lo stesso In A Silent Way (1969), uno dei primissimi brani elettrici di Miles porta la firma proprio del geniaccio Zawinul, ma a questo punto i riferimenti potrebbero essere molteplici e qui basterebbe solo confermare l'idea legittima che vede una poetica, quella del jazz-rock, nascere in un ambito tutto americano, fecondata però da un importante contributo creativo di matrice europea. Un evento fondamentale per la diffusione del nuovo verbo fu sicuramente il Festival dell'Isola di Wight del 1970, dove la storica performance di Davis e dei suoi "allievi",ovvero i giovanissimi Keith Jarrett,Dave Holland,Jake Dejonette, Chick Corea,Gary Barts e Airto Moreira, rappresentò un baluardo di rara bellezza musicale. L'ascolto dei 35 minuti di Call It Anything dovette essere rivelatorio per molti giovani musicisti lì presenti e spalancò le porte di un sound tutto nuovo, le cui potenzialità di sviluppo erano tutte da "immaginare" ed "esplorare". Nel tempio jazz di Montreux invece, altri importanti arrivi saranno poi quello di Zappa nel 1971,con la proposizione del suo lungo King Kong (brano del 1969),della Mahavishnu Orchestra nel 1974 (con il quintetto magico di Mclaughlin,Hammer,Goodman,Cobam,Laird ormai sciolto) e ancora di Miles nel 1973. Tuttavia, ancora prima di questi storici raduni della cultura musicale giovanile del tempo,era già iniziata l'epoca in cui musicisti del calibro di Robert Wyatt affermavano "Al diavolo il vostro Brian Jones...io ho i mie dischi di Mingus" e si aprivano alla ricerca del nuovo. La personale ricerca di Wyatt sulla musica afro-americana sarà fondamentale per la sua carriera solista, mentre nel 1970 vedrà la luce uno dei massimi capolavori del jazz-rock europeo, ovvero Third dei Soft Machine. Wyatt sarà il responsabile della "sofferenza trascendentale" plasmata in quel Rock Bottom (1974)che segnerà una sorta di passaggio epocale per la storia della popolar music occidentale. E' sicuramente all'interno della cosidetta scena della "Scuola di Canterbury" che va individuato il miglior laboratorio di sperimentazione per il jazz-rock britannico, dove accanto alla parabola ascendente dei Soft Machine si distinsero gli Hatfield & The North,i National Health,i Gilgamesh, i Matching Mole,il Keith Tippett Group, i Nucleus di Ian Carr o ancora i Gong del secondo periodo guidati da Pierre Moerlen. Lo spazio concreto della ricerca di Canterbury fu quello del collettivo dell’Ottawa Company, dedito all’improvvisazione e all’indagine di nuove soluzioni espressive, e che comprendeva tra le sue fila molti dei musicisti delle bands sopra citate. In Inghilterra l’esperienza del Canterbury Sound ha un importante rapporto di scambio con quella Music Improvising Company dei vari Evan Parker, Derek Bailey o Trevor Watts come anche instaura una relazione feconda con quei musicisti sudafricani che, Chris Mcgregor,Louis Moholo, Dudu Pukwana in primis,daranno un apporto fondamentale per la messa a punto di un certo sound afro-jazz. E senza dimenticare le poliedriche personalità di un Lol Coxhill o John Surman, impegnati nei più svariati progetti,come di una Carla Bley e di Michael Mantler (austriaco di nascita),occorre in questa sede dire che interpretazioni suggestive ed originali di jazz-rock erano anche quelle del periodo maturo dei Traffic,dei Colosseum,dei Back Door,dei Brand X,di Brian Auger, degli If,di Jack Bruce, della Ginger Baker Air Force, o ancora di formazioni minori del circuito progressivo come i Tonton Macoute o gli Affinity, come del resto elementi di jazz li troviamo in formazioni dalla maggiore complessità fisiognomica come King Crimson ed Henry Cow. Nella Germania colonizzata dai "corrieri cosmici", i pionieri del nuovo sound sono gli Embryo con la loro ambiziosa proposta di jazz-etnico e gli Annexus Quam con il loro jazz-spaziale.
Grazie anche all'apporto fondamentale di musicisti quali Mal Waldron e Charlie Mariano, gli Embryo coniarono una loro identità unica, che esplode trasparente in dischi come Father Son & Holy Ghost del 1972, Rock Session e We Keep On del 1973. Ma accanto a loro una posizione di tutto rispetto è occupata da Xhol Caravan, Out Of Focus,Opossum, Exmagma,Passport,Thirsty Moon, Association P.C,Brainstorm,Kraan,Dzyan, insieme ai progetti minori ma validissimi di Morpheus,Firma 33 o Aera, e alle divagazioni soliste di Eberhard Weber,Volker Kriegel o Wolfang Dauner,senza dimenticare la magia espressiva del Dave Pike Set, come la presenza nell’ambito dell’Improvvisazione Europea di personaggi come Joachim Kuhn o Alexander Von Schlippenbach.Altre formazioni invece, come i Tortilla Flat e gli Zyma sul finire del decennio, mostravano molte affinità con Canterbury. Nell'alta Scandinavia i cugini di primo grado degli Embryo sono gli svedesi Archimedes Badkar, fautori di una poetica che sposando i suoni del mondo riproduce atmosfere dense e vaporose allo stesso tempo,come già stavano facendo negli Stati Uniti gli Oregon di Ralph Towner e Colin Walcott. Sempre in terra svedese, dove era forte il lascito del grande Jan Johansson (scomparso nel 1968) accanto ai richiami jazzistici degli Samla Mammas Manna, vi erano gli ottimi Lotus e i non eclatanti Kornet, mentre alla Norvegia dei mostri sacri Jan Garbarek e Terje Rypdal (presente anche nel capolavoro di Morning Glory del 1973 con John Surman) si contrapponeva la Finlandia dei Wigwam, dei Finnforest e delle parentesi jazz del poliedrico Pekka Pojhola con i suoi differenti progetti (Pekka Pojola Group o Jupu Group),contemporanei a quelli di Jukka Tulonen, già leader dei Tasavallan Presidentti. Scendendo nella vicina Danimarca, timidi ma non privi di spunti interessanti d'ibridazione tra rock e jazz sono quelli proposti da Burning Red Ivanoeh e Secret Oyster. In Francia mentre brillava il violino dell'astro Jean-Luc Ponty (nel '73 in tour con Zappa in Europa e poi l'anno seguente con la Mahavishnu Orchestra, e ancora nel progetto collettivo New Violin Summit del 1971 con Wyatt,Dauner, Rypdal e Don “Sugar Cane” Harris) con una personalissima ricerca da solista, vi erano formazioni come Travelling e soprattutto i fantastici Moving Gelatine Plates che onoravano degnamente e con originale fantasia i progetti dell'orbita "Canterburiana".Più vicina alle dinamiche del free-jazz fu la follia degli stupefacenti Etron Fou Leloublan, come del resto quella dei Magma che però suggellarono un'ideale fusione di rock e jazz nell'omonimo doppio primo album del 1970.E da una costola dei Magma, ovvero quella del pianista Francois Cahen, ebbero vita le acrobazie sonore degli Zao. C’erano anche formazioni minori come Spheroe,Herbe Rouge, Transit Express o Edition Speciale, e se un gruppo come i Vortex mostrava buona inventiva, in terra francese le migliori proposte d’avangurdia trascenderanno tuttavia confini codificabili, dapprima con i Pataphonie e poi coi magistrali Art Zoyd. Nel confinante Belgio, se è riduttivo etichettare come jazz-rock una formazione come quella degli Aksak Maboul, poiché al pari dei cugini Henry Cow possiede ben altra ardimentosità e ricchezza di sfumature, vanno annoverati innanzitutto i Cos con i loro splendidi Viva Boma (1976) e Babel (1978), gli Arkham con una certa oniricità che li accosta al movimento “zeuhl” d’ascendenza “kobaiana” (Magma), i Placebo di Marc Moulin (per un breve periodo con gli Aksak Maboul) e i Pazop. Nell’Olanda di Misha Mengelberg, tra i protagonisti della suddetta scena improvvisativa europea, spiccano le atmosfere dei Supersister, accanto a quelle dei Pantheon, Scope e Solution, mentre in Svizzera dove emergeva il grande talento di Irene Schweizer, saranno gli Om del chitarrista Christy Doran e i Drum Circus di Peter Giger (già con i Dzyan) a fornire all’ascoltatore ideali atmosfere per un viaggio senza tempo. Tra le lande iberiche troviamo qualcosa di relativo all’oggetto di questa ricerca nella Spagna che vive il momento storico del "Nuevo Dia" post-franchista. Accanto al diffuso flamenco-rock dai toni sinfonici, rappresentato con eleganza soprattutto da Triana, Granada e Mezquita, formazioni come Iceberg, Compania Electrica Dharma, Jarka, Guadalquivir e Imam Califato Indipendente osano fusioni che non nascondono spunti interessanti ma che in qualche modo dimostrono l’indubbio debito nei confronti dei modelli americani (Chick Corea e Santana tra tutti). Nella Russia comunista i pionieri di un certo jazz-rock di buon gusto sono gli Arsenal, ma il loro primo disco del 1979 si colloca ormai lontano dalla stagione piu fervida del jazz-rock europeo. Ben diversa la situazione in alcuni paesi periferici del sistema sovietico, a partire dalla Polonia che sin dagli anni ’50 giova di una tradizione jazz di tutto rispetto. Qui, accanto agli indiscussi maestri Krzysztof Komeda, Tomasz Stanko, Jan “Ptaszyn” Wroblewski o Andrej Trzaskowski, emerge il virtuosismo cristallino di Michal Urbaniak (presente anche nel citato New Violin Summit con Ponty ed Harris) che con il suo violino ricama composizioni di grande intensità. Su orizzonti qualitativi ben differenti si collocano alcuni progetti di Wlodzimierz Gulgowski o Zbigniew Seifert, come troviamo formazioni “orecchiabili” come Extra Ball e Laboratorium, che rimandano anche ad alcune influenze jazz dei primi lavori progressivi degli storici Sbb. L’altro polo di ricerca più attivo è quello dell’ex Cecoslovacchia, dove notiamo il brio fantasioso dei Flamengo e alcuni sottili richiami esotici degli Jazz Q, accanto ad altri colletivi come Energit, The Blue Effect, Fermata e Mahagon. Infine, affrontando il discorso nei paesi dell’ ex Yugoslavia questo si fa un po imbarazzante, specialmente per chi, come gia detto in precedenza, risulta già assuefatto dalle vette espressive del più autentico jazz-rock. Tutti quei gruppi (tra cui Korni Groupa o Leb I Sol) che animavano il famoso raduno “pop” a Ljubljana oscillavano tra un pop-jazz, che sembrava banalizzare le migliori cose di Stevie Wonder, Steely Dan o Working Week, e un rock-sinfonico dai toni sdolcinati (inascoltabili entrambi direi) che riproponeva in chiave autoctona timidissime reminiscenze del robusto rock-progressive inglese. In questa valle di lacrime senza geni musicali, impossibilitati a nascere dal particolare clima sociale, possiamo citare il tastierista Tihomir Pop Asanovic, gli Izvir e i September come i tardivi Den Za Den del 1980 provienenti da Skopje. In ogni caso per trovare qualcosa di veramente interessante in quest’area geografica dovremo aspettare l’arrivo dello sconvolgente sound dei Begnagrad, a cavallo tra folklore e free-jazz, e lodati per la loro creatività dallo stesso guru Fred Frith. E approdiamo finalmente in Italia… L’esperienza nostrana in termini di contaminazione jazz e rock meriterebbe un articolo a parte, senonaltro per il suo indiscutibile contributo d’inventiva furibonda, che si colloca tra le vette dell’intero circuito europeo. L’inizio della stagione gloriosa del jazz-rock italiano può essere collocata nel 1972, anno del primo album Azimut del Perigeo. Che il quintetto formato da Claudio Fasoli,Franco D’Andrea, Bruno Biriaco,Giovanni Tommaso e Tony Sidney avesse una marcia in più era chiaro, come era facilmente percepibile la dimensione “extra-terrestre" del "maestro della voce" Stratos e degli Area. Se quest’ultimi dialogavano fecondamente con certa avanguardia di sapore elettro-acustico (Cage, Berio,Nono etc), fecero la stessa cosa i Dedalus, che dopo l’omonimo esordio del 1973 suggellarono il fantomatico Materiale Per Tre Esecutori E Nastro Magnetico l’anno seguente. Il periodo 1973-1976 si caratterizza per la ricchezza di spunti nuovi e il nascere di formazioni che abbracciano con convinzione il vento del nuovo linguaggio musicale. Il 1974 segna per esempio l’esordio degli Arti & Mestieri con il loro Tilt, Immagini Per Un Orecchio mentre il 1975 è emblematico poiché vede l’uscita di due perle irrepetibili, ovvero il Live In Montreux degli Agora e soprattutto il messaggio socio-politico insito in Napoli Centrale, dove gli spietati testi di denuncia s’armonizzano perfettamente con grooves densi e passaggi sax-piano elettrico esemplari. Se c’era una formazione che possedeva similitudini con l’area inglese dell’influente Canterbury fu quella dei Picchio Dal Pozzo, mentre ensemble come quello dei Living Life e Maad sprigionavano con sapienza una loro visione d’apertura etnicizzante. Tra gli altri protagonisti vanno poi citati Il Baricentro, i Maxophone, Duello Madre, Venegoni & Co.,gli Etna dei fratelli Marangolo, i Kaleidon, i Nova (che collaborano anche con Phil Collins in Vimana del 1976) o i misconosciuti Cincinnato.
E qui s'arresta temporaneamente il nostro percorso sul jazz-rock europeo, consci comunque che viaggiare tra le sue lande incantate vuol dire sondare, da Nord a Sud, da Est ad Ovest, sentieri forse ancora poco frequentati, i cui tesori però furono già consegnati in veste di cospicua eredità alle future generazioni.




dicembre 11, 2011

Skaven - Flowers of Flesh and Blood


Gli Skaven sono un quintetto proveniente da Oakland, California, dedito ad un death metal imbastardito con crust e black. Il nome trae origine da dei ratti umanoidi presenti nella serie di Warhammer, gioco di ruolo tra i più conosciuti al mondo.
Nati dalle ceneri dei Black Maggot e attivi dal 1995 al 1997, sfortunatamente hanno dato alle stampe solo tre releases ufficiali, due split, uno con i Dystopia e uno con gli Stormcrow, e un EP. Dopo l'unico tour fatto nell'inverno 1996, si sciolgono nell'anno successivo.


Flowers of Flesh and Blood è stato registrato con l'aiuto di Noah Landis dei Neurosis, dalla sessione in studio vennero fuori tre canzoni: Flowers of Flesh and Blood, Severed e The Swarm, le prime due finite sull'ep e l'altra pubblicata solo nel 2008 nello split con gli Stormcrow.
I due brani sono molto belli, il lavoro svolto dal chitarrista e dai due bassisti è egregio, il sound è sporco e pesante, con riff che possono ricordare anche i primi Dissection, alternati a rallentamenti e parti cadenzate quasi doom. Il cantante urla che è una meraviglia con voce aspra e graffiante e le parti vocali calzano benissimo con il resto. Il drumming è nella norma, il batterista fa il suo lavoro senza stupire, sarà anche per questo che è finito a fare lo squatter in Europa...

ottobre 29, 2011

George A. Romero's Survival of the Dead


Sin dai primi minuti del film temi la solita solfa: epidemia di zombie e soldati, il tutto condito con  effetti speciali tremendi, una buona ricetta per un film di merda.
Poi pensi al regista, George A. Romero, e ti vengono in mente le immagini dello storico Zombi del 1978, ricordi con piacere i non morti, il centro commerciale e la critica sociale di cui è pregno tutto il film. Un buon motivo per continuare a guardare.



La trama: quattro soldati della guardia nazionale e un ragazzino decidono di raggiungere un'isola, una terra promessa non infestata da morti che camminano. Andranno incontro ad una faida tra le due famiglie più potenti del luogo, faida nata anche dalle divergenze dei due capi clan su come affrontare il problema dell'epidemia.
Nel mezzo di tutto questo una analisi semplicistica dell'utilizzo di internet come specchietto per le allodole, un riferimento alle politiche repressive contro l'immigrazione e all'integrazione, tematiche solo accennate e rese stantie dalla ripetitività dei giudizi del regista sulla società contemporanea.
Se poi aggiungiamo una prova recitativa non proprio eccelsa e una regia anonima, il film di merda è servito.

ottobre 27, 2011

Rammstein - Herzeleid (1995)

Herzeleid è l'album di esordio dei Rammstein, un gruppo nato nella prima metà degli anni novanta che integra ai martellanti ritmi industrial le pulsazioni provenienti dalla musica dance. Il gruppo deve il proprio nome ad uno storico incidente aereo avvenuto in Germania nel 1988 e si fa notare dal vivo per i volumi assordanti di cui fa uso, le architetture luminose esagerate e i musicisti che esaltano l’atmosfera già immonda spesso anche indossando  maschere munite di lanciafiamme. Lo stile musicale, comunque, caratterizzato dalla salda matrice metal su cui si poggiano una strana propensione alla melodia e un giusto dosaggio di elettronica costituisce un interessante esempio di crossover.
Con Wollt Ihr Das Bett In Flammen (volete vedere il letto in fiamme?) ha inizio il viaggio di Herzeleid: un inno cupo e autoreferenziale che da subito scopre l’ambiguità palese del suono nel suo complesso. L’effettistica aliena che interviene a sostegno della componente ballabile convive con un riff cattivo di chitarra su cui solenne si innalza la voce del cantante Till Lindemann.
Con Der Meister la potenza delle chitarre è liberata completamente insieme a tutta l’energia fisica della danza contenuta nel brano. L’ingresso è una versione amplificata in ferocia delle ritmiche da sala da ballo di fine anni ’80. Vortici caotici deformano gli stacchi di rullante e conducono in ambienti quasi lisergici dove d’un tratto una melodia in maggiore risulta riconoscibile: è un volo strano e di pochi istanti, una sospensione fragile che termina non appena una raffica di doppio pedale arriva per strattonarci bruscamente. Il paesaggio intorno si fa più cupo fino all’impatto violento sul terreno duro, la continua evocazione del disastro aereo.
L’invincibilità del suono in  Weisses Fleich, totalmente tenuto sotto controllo, avanza come farebbe un carro armato di un esercito dominante  in un contesto bellico ad alta tensione. La sensazione di trovarsi dentro ad un incubo è inevitabile, assomiglia al sapere di essere poco lontani da un pescecane, a largo di un oceano buio.
Un concerto
Con una vena di tradizionale hard rock  Asche Du Asche comunque non manca di surreali sussurri ipnotici e un acido motivo di basso, ma i momenti di romanticismo più esplicito vengono raggiunti in Seeman dove delicato l’arpeggio di chitarra si sovrappone a un tintinnio di metalli dolci e il basso, dal suono ineditamente caldo, privato dell'abituale distorsore, armonizza un canto malinconico: è una canzone che non riesce a fare a meno della tensione metallara o del noise, rimanendo però dentro ad una sorta di rigore europeo da conservatorio. Nonostante la regolarità della struttura il brano risulta comunque ambiguo anche per la presenza della tastiera che interviene a sostegno della melodia rendendola più celeste, fino al ritorno dell'arpeggio iniziale.
In Du Reichst So Gut è uno stacco in pieno stile dance a segnare l'avvio. Così può partire una danza ossessiva e in qualche senso poco libera che trasporta in una città violenta con le strade che pullulano di automobili in corsa e con le sirene spiegate. Le svirgolate sulle note acute della chitarra risuonano in mezzo a distorti riff orchestrali sovraincisi. La voce ingorda è quella di un guru irritato, o di un re che parla ai suoi sudditi guardandoli dall'alto e  sostenuto da un organo che dona magia all'atmosfera. Il limite del brano è il ritornello che sembra richiami a certe banalità del punk rock che comunque, nel complesso, non infastidiscono più di tanto.
Completano l’album Heirate Mitch in cui oltre a sentire uno dei pochi assoli di tutto il disco la voce ricorda le iniziazioni a certi oscuri riti massonici alla Eyes Wide Shut,  Das Alte Leid dove domina l’heavy metal, Herzeleid con i suoi riff incisivi, il ritornello celebrativo e le dinamiche oscillanti,  la stupenda Laichzeit, un esempio perfetto di come i riff metallari possono fondersi alla techno e Rammstein che chiude l’album in maniera perfetta e che viene utilizzata da Lynch nel 1996 in Strade Perdute (insieme a Heirate Mitch)
Nel suo complesso il disco può forse risultare un po’ ripetitivo e non pienamente riuscito nel tentativo di rendersi originale attraverso la contaminazione di diversi generi, ma merita comunque di essere ascoltato se non altro per le sue intenzioni.

ottobre 25, 2011

Folk Bottom vol.4 : Goodbye Mr. Jansch!


Bert Jansch - The Ornament Tree 1990


Il 5 ottobre scorso ha lasciato questa Terra uno degli ultimi massimi esponenti del folk britannico.
Insieme a John Renbourn, Robin Williamson della Incredible String Band e personaggi come Roy Harper, Nick Drake e John Martyn, Bert Jansch, fu tra i principali maestri della chitarra acustica negli anni Sessanta e Settanta. Di origini scozzesi, con il suo stile ibrido di folk e blues scrisse le pagine più emozionanti ed originali dell
a nuova stagione folk-europea, ormai lontana da un approccio di semplice "revival".
Tra i suoi primi lavori vanno ricordati l'esordio omonimo Bert Jansch del 1965
e lo splendido Bert & John insieme a Renbourn, che contiene una mirabile interpretazione di Goodbye Pork Pie Hat di Charles Mingus, e Birthday Blues del 1969.
Insieme a Renbourn,Terry Cox alla batteria e al glockenspiel , Danny Thomps
on al contrabasso e alla magica voce di Jacqui Mdshee, Jansch diede vita, tra il 1968 e il 1972, alla fortunata stagione dei Pentangle, pionieri insieme ai Fairport Convention e agli Steeley Span di un folk d'autore di grande fascino, e caratterizzato dalla sua raffinata miscela di folk, blues e jazz.
Fondamentale è l'ascolto del doppio Sweet Child del 1968, con una parte live e d'una in studio, che racchiude piccoli e cristallini momenti sonori come quell di Three Dances, No Exit e Watch The Stars. Molto intenso e dai toni soffusi è anche Basket Of Light dell'anno seguente, anche se l'altro capolavoro dei Pentangle è probabilmente Cruel Sister del 1970 con le splendide versioni della title-track e della lunghissima e preziosa Jack Orion.
Quest'ultimo brano da anche il nome all' ottimo album solista del 1966 di Jansch, che nel corso dei Settanta si conferma compositore e interprete della tradizione inglese, scozzese e irlandese di
grande talento e sensibilità, con dischi come Rosemary Lane del 1971 e L.ATurnaround del 1974.
Il discorso artistico di Jansch prosegue regolare negli Ottanta e nei Novanta che si aprono col il lodevole The Ornament Tree, come del resto anche al voltar del secolo in cui non tralascia mai l'importanza delle esibizioni dal vivo. L'ultima sua fatica e' stata The Black Swan del 2006.



The Pentangle


Discografia


Bert Jansch 1965-1978


Bert Jansch 1965
It Don't Bother Me 1965
Bert & John (con John Renbourn) 1966
Jack Orion 1966
Nicola 1967
Birthday Blues 1969
Rosemary Lane 1971
Moonshine 1973
L.A. Turnaround 1974
Santa Barbara Honeymoon 1975
A Rare Conundrum 1976
Avocet 1978



Pentangle 1968-1972


Pentangle 1968

Sweet Child 1968
Basket Of Light 1969
Cruel Sister 1970
Reflection 1971
Solomon's Seal 1972


ottobre 16, 2011

The wake. here comes everybody.





Nel 1985 la Factory Records rilasciava Here comes everybody, secondo disco della band scozzese The Wake. Capolavoro intriso di post-punk degli inizi ( Harmony, 1981) e barbagli di pop romantico e sognante del futuro che li condurrà sotto l'egida della Sarah Records.










here comes everybody

o, pamela

gruesome castle

ottobre 04, 2011

Hadestown :: A Folk Opera


Hadestown, uscito nel 2010, è la folk-opera concepita dalla cantautrice del Vermont Anais Mitchell e realizzata, sulla base delle sue canzoni, con gli arrangiamenti di Michael Chorney, che ha collaborato anche alle musiche.
L'intero album è ascoltabile su Youtube e facilmente scaricabile. A questo indirizzo si possono reperire tutte le informazioni su di esso e sui precedenti lavori di Anais Mitchell nonchè apprezzare l'artwork di Peter Nevins. L'opera si può seguire qui con un vero e proprio libretto,
completo di testi e riassunto della storia.
Nonostante venga definito dalla stessa autrice una folk-opera,nel disco trovano spazio gli stili musicali più diversi, a cui Mitchell e Chorney attingono molto liberamente per rendere vivida l'impressione di ogni scena e rinnovare uno dei miti più ricorrenti della musica, Orfeo e Euridice.
Il carattere folk è invece forte sia nella scelta di un mito greco,decisamente rurale,
sia in alcuni brani e nella centralità della chitarra acustica.
Figlia di un professore di lettere nonchè romanziere, Anais Mitchell fin dalla prima infanzia ha avuto contatti con i libri, specie con quelli di mitologia greca, e quest'influenza, unita al forte contatto con la terra (è nata e cresciuta in una fattoria senza televisore) e con una collezione di dischi psichedelici ha fatto maturare in lei l'idea della folk-opera.
Per aiutarla nel suo intento si sono offerti molti amici musicisti del Vermont, come Ani di Franco (cantante e chitarrista che ha scoperto Anais Mitchell mettendola sotto contratto
per la sua RighteousBabe) nel ruolo di Persephone, Greg Brown (un cantautore a metà strada tra un Dylan più ironico e un Tom Waits con meno raucedine noto anche per aver firmato alcuni brani dei Cake) in quello di Hades, Justin Vernon ( in arte Bon Iver, delicata voce cantautoriale rivelatasi nel 2008 con For Emma Forever Ago) nella parte di Orpheus, Ben Knox Miller
(del giovane gruppo country Low Anthem) come Hermes, il trio vocele The Haden Triplets a dar voce alle Fates e lo stesso Chorney nel ruolo di arrangiatore/orchestratore.
Nonostante l'intento ambizioso, il lavoro è riuscito in maniera stupefacente.
La straordinaria umanità dell'album trova la sua strada in canali musicali diversissimi, accomunati dalla forma di canzone e con arrangiamenti vari e complessi ma sempre musicali, mai furbi e neanche cervellotici o sovrabbondanti.
Molto interessante l'uso della batteria, spesso simile a quello nella musica "classica" contemporanea (ovviamente non nell'accezione di Allevi) con accenti e figure obbligate scritte a sostituire un pedante accompagnamento ormai abusato nel "rock".
Il tutto è incredibilmente curato senza per questo essere meno emozionante.
Nei brani, ovviamente di matrice folk, confluiscono ibridi fugaci, con accordi indiani dosati come spezie potentissime, accelerate drum & bass e filtri elettronici che coesistono perfettamente senza che nulla suoni assemblato, ma sia invece parte di un'unica visione multiprospettica.
Merito degli arrangiamenti di Chorney, ma soprattutto delle splendide canzoni di Mitchell che essi decorano senza sopraffare. I grandi artisti coinvolti sono poi ben più che meri interpreti.
L'ambientazione scelta per il mito è la Grande Depressione, cioè l'America degli anni '30, straordinariamente attuale, sia nel ritorno alla crisi economica che in quello a un folk primigenio.
L'apertura fa subito respirare l'aria delle verdi colline,con chitarra, contrabbasso, batteria spazzolata, violini e tremuli accordi lontani ad introdurre su un tempo sostenuto ma allo stesso ampio il duetto tra Anais Mitchell e Bon Iver, Eurydice e Orpheus prossimi alle nozze, poveri ma fiduciosi nella generosità della natura. Sullo stesso stile campestre, ma con l'aggiunta del pianoforte e su un tempo molto più disteso, 'Epic part One' compie le sue sognanti rivoluzioni malinconiche prima di fermarsi con l'arrivo di Hermes, che, tra latrati di cani e un'armonica da strada, trascina l'ascoltatore giù verso l'inferno con un uno scalmanato ballo jazz anni '20, in cui divampano cori e una tromba con sordina. Altrettanto innovativa per il mito e evidente metafora della società è la concezione del luogo infernale. Hadestown si presenta come un posto che promette infinite ricchezze attirando a se' i vivi che soffrono la povertà. Ma si rivela ben presto un regno di miseria e privo di libertà i cui sudditi,quasi lobotomizzati, non si rendono conto di ciò che contribuiscono attivamente a far esistere. Si difende dal "nemico" esterno, altri uomini in cerca di lavoro, erigendo muri e incitando al contrasto, alla freddezza e all'avidità. Dalla spettacolare opulenza infernale resta colpita Eurydice, preoccupata della povertà, mentre resta scettico Orpheus. La seduzione di Hades in persona si insinua però a passo di pizzicato con un valzer per accordion e soprattutto uno strepitoso Greg Brown, che utilizza le sue corde più basse
per scendere nell'Ade e calarsi nel personaggio del re dei morti, e Eurydice cede ('Gone, I'm Gone', un sofferto salto nel vuoto reso in musica). Le Fates giustificano la sua scelta con When The Chips Are Down, che parte africana evolvendosi sugli impulsi del basso in una danza latineggiante, mentre Orpheus si protende verso Eurydice con Wait For me, con tapes e figure di pianoforte perfettamente incastonati. E' l'intro per 'Why do we build the wall ?' , che cresce mattone su mattone salendo in alto con un ritornello sempre più lungo fino alla coda di accordion dolorosa e poi ipnotica. Nel brano, pietra angolare dell'album e forse suo vertice compositivo, Hades istruisce i suoi seguaci chiedendo loro conto della lezione, fino a ripeterla soddisfatto con essi. Sua moglie Persephone è invece introdotta su un sinuoso blues-jazz tra incitamenti e cori,chitarre e vibrafoni perfettamente a loro agio. Sembra di entrare in un club, in cui Persephone come Hades fa le sue proposte infernali ad avventori estasiati seducendoli con la sua voce irresistibile, mentre gli archi spaziano da melodie d'epoca a più moderne e sincopate fratture jazz. 'Flowers' è una canzone successiva al suicido, Eurydice ha tutto il tempo del mondo per spiegare la sua scelta e pentirsene. Nonostante gli ammonimenti delle Fates un Orpheus totalmente fuori di se' eppure calmo come se sognasse decide di inseguire la sua sposa non avendo più nulla da perdere. Il suo canto smuove il cuore di Persephone, ma Hades non vuole provare pietà, conscio della potenza devastante della musica("the kingdom will fall for a song").
Il canto di Orpheus continua sempre più bello e Hades, colpito suo malgrado, resta solo nei suoi dubbi.Tra campane tubolari, tintinnii sotterraneie gelidi accordion matura la sua perfida concessione ai due amanti, certo che, da conoscitore di tutti gli uomini,"Doubt Comes In".
Nello psichedelico brano omonimo, con la batteria monotona a scandire i passi del lungo scuro cammino verso la luce del ritorno alla vita,sembra davvero di trovarsi in caverne gocciolanti, in cui riecheggiano cieche note di archi fino all'irreparabile errore, una luce accecante e stridente di tutti gli strumenti.
Dal silenzio la musica ricomincia solo con la chitarra e le voci di Ani di Franco e Anais Mitchell.
E' il saluto finale, "I raise my cup to him", un brindisi agrodolce intonato dall'inferno alla memoria di Orpheus, e forse anche a quella di tutti i musicisti e di coloro che "cantano" nelle situazioni più difficili. La dedica di Persephone e Eurydice si estende poi verso la sterminata umanità protagonista dell'opera con i suoi archetipi, chiudendo il disco con"goodnight,brothers,goodnight".

settembre 14, 2011

Folk Bottom vol. 3 : an introduction to Robbie Basho


Quello della chitarra folk solista è un'arte sublime e raffinata che in pochi, nel corso della storia della popular music, sono riusciti ad esplorarne le infinite possibilità espressive e le più misteriose sfumature. Quando si parla di una personalità come Robbie Basho bisognerebbe trattenere il respiro, evitare di voler riferire qualcosa di significativo sulla sua opera, quasi come se fosse possibile coglierne l'intero significato. L'arte di Basho è innanzitutto priva di significati certi e codificabili, poichè talmente profondi da relegare al solo ascolto la possibilità di approdare nel mondo nascosto di intime impressioni individuali. La sua musica è dunque di natura organica nel senso che non rispetta forme prestabilite ma s'insinua nel flusso cosmico e dinamico delle cose. Breve ma essenziale risulta essere la piccola biografia di Basho inserita nell'Enciclopedia Rock anni'60 curata da Riccardo Bertoncelli ed edita per Arcana nel 1998 : "Personaggio unico nel panorama musicale degli ultimi anni, Robbie Basho è uno dei maggiori virtuosi di chitarra acustica e autore di composizioni che riflettano singolari interessi filosofici e spirituali. Robert Robinson (n. 1941- m. 1986, USA) si fa notare nei circuiti folk di Berkeley intorno alla metà dei '60, con uno stile composito in cui elementi di blues, folk e cajun si incrociano con raga indiani, flamenco, musica giapponese, cinese e classica europea. Non vi sono notizie precise su come e quando l'artista abbia maturato una cultura tanto varia; curioso e inspiegabile appare anche lo stile vocale, enfatico e tenorile, che sfrutta doti naturali non comuni. Quando Robinson, incoraggiato da John Fahey, nell'estate 1965 inizia a registrare per la Takoma, si fa già chiamare Basho, pare in onore di un antico poeta giapponese. The Seal Of The Blue Lotus e The Grail And The Lotus sono dischi esclusivamente strumentali, caratterizzati da lunghi brani e improvvisazioni di furibonda creatività; Basho Sings, frutto dei primi giorni d'incisione ma pubblicato solo nel 1967, è invece una raccolta di canzoni in forma di musica popolare. La maturazione di Basho è evidente con il successivo lavoro pubblicato in due volumi, Falconer's Arm vol. 1 e 2; è quasi musica sinfonica per chitarra, con sapienti inserti vocali. Dopo due anni di silenzio, Basho all'inizio dei '70 crea i suoi capolavori, Venus In Cancer e Song Of The Stallion, opere di grande poesia sorrette da una tecnica abbagliante. Poi passa alla Vanguard per due album che denetono una certa involuzione; The Voice Of The Eagle, prevalentemente cantato, è una celebrazione degli indiani d'America (argomento ripreso poi in Rainbow Thunder Songs Of The American West), mentre Zarthus vede l'artista cimentarsi al piano per tutta la seconda facciata. A quel punto Basho sparisce per quasi quattro anni, probabilmente impiegati a girovagare (si dice in Tibet) ampliando le proprie conoscenze. Solo nel 1978 ritorna ai dischi, grazie alla Windham Hill di William Ackerman; frutto della rentrée è Visions Of The Country, il lavoro migliore dell'ultimo periodo. Negli anni seguenti Basho continua a produrre buona musica su album e cassette senza curarsi di mode e tendenze commerciali, nonostante la non facile situazione finanziaria. Muore di cancro nel marzo 1986."
A queste informazioni potremmo aggiungere dicendo che l'interesse dei raga indiani venne a Basho dall'incontro con la musica di Ravi Shankar e di Ali Akbar Khan, mentre il poeta giapponese a cui si fa riferimento dovrebbe essere identificato in Matsuo Basho, vissuto tra il 1644 e 1694 e considerato tra i massimi maestri della poesia haiku.
Di certo Basho, insieme al citato amico John Fahey, "è il musicista folk che più consciamente ha saputo astrarre e universalizzare lo spirito trascendente dei raga, trasferirlo nell'infinito delle grandi praterie e delle verdi colline americane, sposarlo al respiro della natura vergine e selvaggia (The History of Rock Music by Piero Scaruffi)".



DISCOGRAFIA



The Seal Of The Blue Lotus 1965

The Grail And The Lotus 1966

Basho Sings! 1967

The Falconer's Arm Vol. 1 1967

The Falconer's Arm Vol.2 1967

Venus In Cancer 1970

Song Of The Stallion 1971

The Voice Of The Eagle 1972

Zarthus 1974

Visions Of The Country 1978

The Art Of The Acoustic Steel String Guitar 6&12 1979

Rainbow Thunder Songs Of The American West 1981

Twilight Peaks 1985




COVER ART


































settembre 06, 2011

Singolarità di una ragazza bionda, un film di Manoel De Oliveira.



Lisbona è una cartolina col suo statuario panorama, una semplice città, caotica come altre, universale, e da lontano la si spia, troppo lontano da essere quasi invisibile, un fantasma d’amore dietro le tende della finestra di fronte, percepito e trasudato attraverso la foggia diafana di un velo come in un sogno o in un ricordo distante. E infatti stiamo fuggendo, il fischio del treno ci chiama a dimenticare.

La singolare ragazza bionda, la femme d'à côté aleggia lo spirito romantico e di devozione spiccatamente ottocentesco tanto caro a Truffaut - farà la sua apparizione dalla finestra di fronte dell’ufficio di Macario (Riccardo Trepa), l’eroe dal cuore affranto, stravolgendogli la vita. Una sventura, così racconta alla sconosciuta nel treno, una donna qualsiasi capitata al suo fianco, una/o qualsiasi spettatore del viaggio - quello che non vuoi dire alla tua donna, quello che non vuoi dire al tuo miglior amico, dillo ad uno sconosciuto, recita una voce off poco dopo i titoli di testa, forse il pensiero ossessionato del protagonista stesso.

Il suo spirito irrequieto e le sue parole madide di sofferenza ci proiettano verso l’innamoramento, permeato di un romanticismo dostoevskiano --–… all’improvviso, per caso, alzo gli occhi – davvero, il cuore mi ha dato un balzo ! Come avevate capito bene quello che desiderava il mio cuore ! (povera gente) -- dove il morboso carteggio tra Makar e Varvara viene custodito da segrete attese e sguardi languidi tra Macario e l’incantevole ragazza bionda, Luisa (Catarina Wallestein).

Dopo aver chiesto la mano alla madre della ragazza, Macario deve scontrarsi contro l’austerità, che cinge il ridicolo, di suo zio Francisco che intransigente non concede alcuna possibilità di matrimonio. Costretto a lasciare casa e lavoro viene spedito a Capo Verde per affari da dove ritorna con un’ingente somma di denaro, la dote utile per l’agognato e indissolubile sogno d’amore. Ma il suo casuale benefattore, l’uomo dal cappello di paglia, si rivelerà una canaglia trascinando Macario nel baratro. E proprio quando tutto sembra perduto e l’uomo si appresta a lasciare nuovamente Lisbona e la bella Luisa, per risollevare la drammatica situazione finanziaria, ecco l’inopinata mossa dello zio Francisco che riaccoglie il nipote sotto la sua protezione. Il matrimonio s’ha da fare.

Il film è una favola dal sapore amaro, tratta dal racconto di Eca de Queiroz, e tradotta con una sceneggiatura intrisa di sospensione e immobilità letteraria - il cinema portoghese è storicamente e intrinsecamente legato alla letteratura - riadattate ai tempi moderni, al nuovo millennio.


Una poesia in cui la bellezza singolare di una ragazza bionda si cela con civetteria dietro uno splendido ventaglio cinese, in cui i corpi degli amanti, appartati fuori campo, vengono catturati attraverso le loro ombre proiettate sui gradini di una scalinata e in cui un bacio viene scortato da una gamba sollevata all’indietro a mezz’aria.

L’inossidabile Manoel De Oliveira, appena superato il secolo di vita, afferra col minimale occhio bressoniano – e il suo pessimismo, quello de l’argent, indagatore della corruzione morale dell’uomo - inquadrature statiche ad incidere gli attori in pose scultoree, e anche un teatrale e spiazzante risvolto finale, dove il corpo della donna a lungo desiderata giace inerte e abbandonato su di una poltrona sfumando ogni ombra di lieto fine - e il mondo sembra non aver più bisogno dei sentimenti e insegue un futile cappello, e il mondo sembra aver dimenticato la dignità e nasconde in una mano un anello dalla pietra preziosa.



P.S. il film, della durata di un'ora, è interamente visionabile su youtube diviso in 5 parti e in lingua originale e con sottotitoli in italiano (non proprio impeccabili), qui la prima parte: http://www.youtube.com/watch?v=OgNA9VQyWvk